A ncor prima della fondazione di Israele – quando, nel 1947, l’Onu adottò un piano per tenere Gerusalemme sotto il proprio controllo e creare due stati indipendenti, uno arabo e uno ebraico, dividendo in due il mandato britannico della Palestina – quelle erano già terre contese. Dividersi serve a poco. Comprendere invece a fondo le ragioni di tutti è un indispensabile segno di civiltà per ambire a conoscere il reale stato delle cose. Cominciamo con un dato di fatto. Un numero. Gli appena 10 litri d’acqua che ciascun palestinese di Gaza deve farsi bastare nell’arco di un’intera giornata per tutte le necessità.

M entre i coloni israeliani in Cisgiordania ne consumano, in media, quasi quattrocento. Un altro numero. L’età media degli italiani è di quasi cinquant’anni. Nella striscia di Gaza - che si estende per 41 chilometri in lunghezza (con una larghezza che varia dai sei ai dodici chilometri) – l’età media dei due milioni di rifugiati che vi risiede in condizioni di vita estenuanti è di appena 18. Una vera e propria prigione a cielo aperto, come l’ha definita la giornalista Asmà Al-Atawna in un suo articolo recentemente pubblicato sul numero monografico di “The Passenger” (Iperborea) dedicato alla Palestina. Lei - nata nella Striscia di Gaza e rifugiatasi all’estero per poter ambire a esistere - racconta del blocco aereo, marittimo e terrestre imposto da Israele che impedisce di entrare e uscire da questo fazzoletto di terra intriso di dolore e di sofferenza. Chi resta dentro, poi, è soggetto alla legge dei terroristi di Hamas.

Il novanta per cento del cibo consumato a Gaza è importato e l’elettricità è garantita per appena 13 ore al giorno. I cinquemila palestinesi che si trovano incarcerati in Israele (molti di loro vengono trattenuti a tempo indeterminato senza imputazione né processo) si affidano alla fecondazione artificiale per avere figli, contrabbandando il loro sperma fuori dalle carceri israeliane nella speranza che arrivi in tempo in una delle cliniche specializzare di Ramallah dove le loro mogli potranno procedere all’inseminazione artificiale. Donne glorificate dal movimento nazionalista palestinese “per la loro capacità di preservare la continuità della collettività e di compensare – almeno demograficamente – la relazione asimmetrica con Israele” scrive Eleonora Vio.

Leggere le 192 pagine di inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che il numero monografico di The Passenger dedicato alla Palestina contiene significa andare a fondo. Prendere atto e percepire il ritratto schietto di un luogo complesso. Dal campo profughi di Jenin – simbolo palestinese della resistenza contro l’occupazione israeliana – alla città di Hebron: uno dei pochi casi di convivenza tra palestinesi e coloni israeliani in Palestina.

Scrive Asmà Al-Atawna nel suo racconto: “Mio nonno paterno arrivò nella Striscia di Gaza nel 1948. In quell’anno ebbe luogo l’esodo dei palestinesi cacciati dalle loro terre a causa dei massacri compiuti dall’Haganah, il braccio armato del movimento sionista israeliano. Molti villaggi arabo-palestinesi, svuotati dai loro abitanti, furono completamente distrutti per fare spazio a quelle che sarebbero diventate nuove mete turistiche in grado di attrarre visitatori da tutto il mondo”. Le radici del dolore, insomma, sono antiche e profonde e il rovello di emozioni viscerali che tormentano i territori dell’Ex Mandato britannico della Palestina (formato nel 1920, dopo che l’Impero Ottomano perse la Prima guerra mondiale) si è ingarbugliato sempre più fino a generare questa nuova guerra: che già fa vacillare i logori equilibri di una geopolitica internazionale, sempre meno propensa alla diplomazia e sempre più i nerme davanti alla violenza che, nel mondo, ormai dilaga.

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