L ’anno scorso i politologi Christopher Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti, hanno pubblicato un libro dal titolo suggestivo: “Technopopulism”, tecnopopulismo. La tesi dei due è che tecnocrazia e populismo non siano due poli contrapposti, come sembrerebbe: le élite contro il popolo. Al contrario tecnocrazia e populismo sono invece motivi ricorrenti della politica contemporanea, si sovrappongono nel discorso di leader diversi, coesistono persino nella retorica di figure come quella di Emmanuel Macron.

Macron è l’antipopulista per antonomasia, che si impone contro destra e sinistra estreme. Eppure anche lui ha puntato il dito contro le caste che inguaiano la Francia e ha sviluppato una relazione personale, diretta, coi suoi elettori, saltando l’intermediazione tradizionale dei partiti: tant’è che s’è fatto il suo, gli ha cambiato nome, eccetera.In Italia oggi la dizione “tecnopopulismo” sembra evocare quello strano feeling che, almeno secondo i giornali, si sarebbe sviluppato fra Mario Draghi e Giorgia Meloni. La necessaria premessa è che Meloni ha dimostrato, nella vittoria, di essere una autentica leader. Non solo ha dato ai suoi la consegna del silenzio, ma questa consegna è stata religiosamente rispettata. Il che significa che ai cronisti non sono rimaste che le briciole, per imbastire i loro racconti. È dunque possibile che i contorni della relazione, da sempre civile, fra lei e Draghi sfumino verso tinte immaginarie.

B ickerton e Invernizzi Accetti suggeriscono che tecnocrazia e populismo hanno in comune la convinzione che esistano risposte “giuste” di per sé e non determinate da giudizi di valore, alle domande con cui la politica si deve confrontare. Per i tecnocrati, queste risposte vengono dalla “competenza”. Da conoscenze specifiche che possono informare le decisioni. Per i populisti, le si deve cercare in un ceto dirigente “nuovo” e “onesto”, affrancatosi dalle ritualità e dalle mediazioni della “vecchia politica”.Il governo Draghi nasce dai partiti e in Parlamento, ma è improntato a questa logica. Si mette a capo dell’esecutivo il funzionario di carriera più prestigioso del Paese, un po’ per brillare della luce riflessa di quel prestigio un po’ perché non serve “visione” politica per navigare fra vaccinazioni e Pnrr. Serve capacità di “execution”. Il primo ministro, insomma, come una specie di amministratore delegato.Meloni dovrebbe incarnare la visione opposta. Appartiene a una famiglia politica che, pur essendosi lasciata alle spalle l'ideologia del passato, tiene fermi alcuni valori e li rivendica apertamente.Da una parte, è vero che il populismo della destra italiana, da ben prima che questa parola fosse di uso corrente, si innesta sulla critica al ceto politico, che per cinquant’anni è stato letteralmente altra cosa da loro. È stato Berlusconi, nel 1994, a portare per la prima volta gli ex missini al governo. FdI è fuori dalle stanze del potere dal 2011 e la sua alterità rispetto a quanto avvenuto nell’ultimo decennio contribuisce a spiegare il suo attuale consenso.Dall’altra, non si può dimenticare che le battaglie di Meloni sono state spesso “democratiche”, contro tutto ciò che allontanava cittadini e scelte collettive: dall’Europa autoreferenziale ai governi tecnici.Draghi e Meloni recitano dunque parti diverse in commedia, ma si incontrano su un altro terreno. Malgrado i galloni di europeista, l’azione del governo Draghi è stata contrassegnata da un ampio grado di “nazionalismo economico”: dall’estensione del cosiddetto golden power (che riduce i diritti di proprietà di imprenditori e azionisti, vincolando la cessione delle imprese a gruppi stranieri a una esplicita benedizione di Palazzo Chigi) alla battaglia anti-olandese e anti-tedesca sul “tetto” al prezzo del gas. Soprattutto in quest’ultima fase, il governo ha suggerito all’opinione pubblica che l’inverno dello scontento energetico che ci attende sia stato causato non dalle scelte politiche del passato, e nemmeno dal non avere preso il toro della politica energetica per le corna dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, accelerando subito su rigassificatori, trivellazioni, eccetera. Bensì da un mercato olandese del gas che sarebbe una “bisca”, dall’opposizione tedesca a soluzioni concertate, dalla “speculazione”. Mancano solo gli gnomi di Zurigo.Il governo uscente, dunque, ha servito a quello entrante una narrazione coerente con le sue pulsioni più profonde. Che fin qui Meloni al contrario aveva cercato di chetare, consapevole dello scetticismo di Europa e mercati nei suoi confronti.Per il governo Meloni sarà difficile cambiare rotta sui temi energetici: le viene lasciato un canovaccio che sembra scritto per lei. Il guaio è che, se l’approccio non darà i suoi frutti, sarà poi lei, e non il suo predecessore, a dover fare i conti con l’impazienza popolare.

Direttore dell’Istituto

“Bruno Leoni”

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