N on esistono guerre definite “missioni” per portare la pace, col fine di fermare conflitti regionali o anche più ampi come in Somalia, nell’ex Jugoslavia, in Libano, Libia, Mali, Iraq e Afghanistan. Sotto il mandato delle Nazioni Unite operazioni militari su base Nato e col contributo di altri Paesi negli ultimi trent’anni si sono succedute senza sosta. Ed oggi sostengono con aiuti di armi e tecnologie l’Ucraina che combatte la più vasta e sanguinosa guerra in Europa dal secondo conflitto mondiale. Ad un anno dall’inizio non si vede una conclusione.

A nzi, ogni giorno si teme un’escalation di cui nessuno può prevedere le dimensioni e le conseguenze. La guerra è guerra, quando si lanciano missili e bombe sulle città, si uccidono militari e civili, si devastano interi Paesi, si assiste ad ogni atrocità documentata dalle immagini delle tv. Putin la può denominare “operazione militare speciale” di autodifesa per prevenire i disegni imperialistici della Nato e degli occidentali tesi ad “annientare” la Russia, in un delirio di propaganda a cui purtroppo buona parte del suo popolo crede in mancanza di fonti alternative alla verità ufficiale. Per gli ucraini chiamati a difendere casa per casa, regione per regione, i confini del loro Paese attraversato dai carri armati russi, è una guerra in grande stile, non diversa da quei conflitti mondiali che hanno caratterizzato il secolo scorso.

Dopo un anno di battaglie campali e di bombardamenti indiscriminati, nessuno tiene più la conta dei morti. Del resto impossibile, perché le parti nascondono le cifre per motivi strategici e di propaganda.

La guerra vera non fa sconti. Numeri presunti e già terrificanti di cui si vedranno le proporzioni solo alla fine di questa scellerata mattanza. Ma nella grande Russia molti cominciano ad accorgersi che le parole trionfalistiche dello zar e della sua corte dei vari Lavrov, Medvedev, Maria Zakharova, nascondono la triste realtà delle migliaia di “eroi” riportati a casa dentro bare di zinco. Come era accaduto, in piena epoca dell’Urss, durante i dieci anni di guerra in Afghanistan, quando l’Armata Rossa perse 13 mila uomini e lasciò il Paese nelle mani dei mujaheddin.

A proposito di Afghanistan non è andata diversamente la missione ventennale della Nato, a trazione americana allargata ad altri Paesi amici, che si è chiusa nell’agosto 2021 con l’abbandono di Kabul e la vittoria dei talebani che, in meno di un anno, hanno azzerato ogni minimo progresso segnato dalla presenza degli occidentali. Nata dopo l’11 settembre 2001 in seguito all’attacco da parte di Al Qaeda al cuore dell’America, doveva puntare a smantellare la centrale del terrore, guidata dal suo leader Osama Bin Laden, che in Afghanistan aveva trovato terreno fertile. Il bilancio conclusivo è persino difficile da immaginare per l’enormità dei costi, il numero dei militari uccisi, non ultimi gli italiani che ci hanno lasciato 53 uomini (cinque i sardi) e le vittime civili (oltre 240 mila).

Di quella “missione” è appena uscito il libro “La guerra nascosta. L'Afghanistan nel racconto dei militari italiani”, scritto dal giornalista nuorese Giampaolo Cadalanu, inviato di Repubblica, col collega della Rai Massimo De Angelis. I due reporter, sulla base delle loro esperienze sul campo e delle testimonianze raccolte tra i militari italiani, restituiscono un’analisi critica e oltre ogni retorica, arrivando ad una conclusione che nella narrazione politica scontata non è. In Afghanistan, come del resto in Iraq, si è sempre parlato di “peacekeeping”, ma di fatto l’aspetto umanitario è rimasto marginale perché in quel contesto a decidere erano le armi e i capi tribù talebani che oggi sono tornati al potere.

Quella missione, approvata da governi di centrodestra e centrosinistra che si sono succeduti, di pace aveva ben poco, nascondendo la cruda realtà di tutte le guerre. Come abbiamo sempre scritto su questo giornale quando partivano all’estero i nostri soldati della Brigata Sassari e affermano nel loro libro i due esperti giornalisti «con le spese colossali sostenute e i tanti militari morti è giunto il momento di dire che questo tipo di missioni non sono umanitarie, ma di guerra».

Concetto fondamentale quanto difficile da superare nel dibattito politico italiano di fronte all’articolo 11 della Costituzione che esplicitamente ripudia ogni genere di guerra offensiva.

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