M ancano quattro giorni al voto e gli ultimi fuochi elettorali alimentano più dubbi che certezze. C’è una vincitrice annunciata, Giorgia Meloni, che in questa lunga e tesa vigilia sembra però paradossalmente impegnata a coprirsi le spalle dagli alleati più che dagli avversari. Nonostante le rassicurazioni di Salvini sul pratone di Pontida («Governeremo insieme per cinque anni»), la leader di Fratelli d’Italia ha dovuto spendere buona parte della sua campagna a prendere le distanze da lui e da Berlusconi, marcando le distanze su temi di non poco conto: dallo scostamento di bilancio alla politica fiscale, dalla gestione dei flussi migratori al welfare, dalla guerra in Ucraina alla posizione italiana nel contesto euro-atlantico.

Giorgia si è data un gran daffare per rassicurare le cancellerie occidentali, salvo poi scivolare sul caso Orban, rispondendo ad un irresistibile impulso sovranista. Tanto da spingere persino il Cavaliere di Arcore ad affermare che «forse è meglio guardare a Bruxelles più che a Budapest».

Tutto ciò porta all’elementare considerazione che un conto è allestire una coalizione e un altro è governare. Soprattutto se dalle urne uscirà – come molti analisti prospettano – un risultato asimmetrico per il centrodestra: un trionfo per la Meloni, una delusione per Forza Italia e la Lega, se non addirittura un tonfo. A quel punto cosa succederà? Salvini e Berlusconi accetteranno di far da vassalli a Giorgia oppure inizieranno ad agitarsi ancora più di prima?

E con quale forza Salvini potrà pretendere per se stesso un ministero di peso (il Viminale?), motivo per il quale le antenne di Mattarella sono già rizzate?

Sono interrogativi legittimi che prescindono dalla più che probabile, ampia vittoria del centrodestra. Dal 26 settembre si aprirà una partita diversa, molto più aperta di quello che oggi possa sembrare. In questa chiave un ruolo importante lo può giocare il Terzo Polo, unica vera novità di queste elezioni. L’alleanza tra Calenda e Renzi veniva accreditata, quando i sondaggi erano ancora pubblicabili, dell’8 per cento. Ma se, come possibile, dovesse andare sopra il 10 per cento, diventerebbe l’elemento chiave di un possibile esecutivo di larghe intese.

Calenda e Renzi non si amano ma hanno deposto le armi per portare avanti un progetto credibile che guarda all’area riformista, autenticamente liberale, che vuole un governo di buonsenso, moderato, che faccia con spirito repubblicano le cose che servono e che Draghi aveva avviato. Un programma lontano dal populismo di destra e dall’indegna politica del “tutto gratis” grillino, l’occhio rivolto allo sviluppo, unica via che può consentire al nostro Paese di affrontare l’annunciata tempesta internazionale. Calenda gode di stima negli ambienti produttivi, soprattutto al Nord (dove peraltro gli amministratori leghisti sempre più mal sopportano Salvini); Renzi è un personaggio scomodo, a volte narcisista ed arrogante, ma persino gli avversari lo accreditano di un’abilità politica fuori dal comune. L’altro giorno Alessandro Sallusti, direttore di “Libero”, giornale non certo amico dell’ex sindaco di Firenze, ha scritto: «Renzi è il politico italiano che la sa più lunga di tutti. Oggi ripete con l’aria di chi la butta lì: ragazzi, calma, non tirate conclusioni affrettate, non è detto che andrà come tutti si immaginano. Per poi precisare: non dico che il centrodestra perderà le elezioni, no quello proprio non può accadere. Dico che potrebbe non esserci poi un governo di centrodestra». E Sallusti concludeva: «Ricordo a tutti una cosa: chi ha insediato Mattarella la prima volta al Quirinale e chi è stato decisivo nel riconfermarlo? Se non sbaglio Matteo Renzi».

Solo fantasie? Può darsi. Tuttavia la chance del Terzo Polo non è da sottovalutare. Vale la pena di tenere a mente la profezia di Calenda: «Meloni è inesperta, ci porta a sbattere nel giro di sei mesi e lei si farà male». C’è un prima e ci sarà un dopo. E quel “dopo” potrebbe riservare molte sorprese.

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