L a cronaca di questi giorni è cruda. Forse c’è di mezzo la mafia, forse anche gli stereotipi sul bandito sardo e sulla Barbagia. E in più il contorno degli insospettabili. Ma tralasciando la politica, che non è opportuno coinvolgere, poniamoci invece una domanda preliminare che prescinde da queste inchieste giudiziarie. La politica esiste ancora come statuto imprescindibile utile a una società sarda equilibrata e coesa? E se ancora lo fosse, qual è oggi il suo ruolo essenziale fuori dal cappio che l’Europa ci impone addirittura dandoci il calibro per i cetrioli da portare in tavola?

O ggi manca la polis originale, forse perché sa pratza non è più luogo di coinvolgimento attivo e rimanda a nostalgie estinte. È in atto uno spopolamento morale degli ideali e spesso assistiamo alle imprese di consorterie che tirano l’acqua al proprio mulino approfittando di ogni libertà ammissibile. Brucia una montagna? Ecco la libertà dell’eolico. Avanza della terra fra un paese e l’altro? Ecco i pastori Kirghisi alla conquista della loro libertà. Eppure mi sembra di assistere a una distopia. Prendiamo il viaggiare. Sta diventando impraticabile. Transitare da un luogo all’altro per scopi lavorativi o quelli più creativi sta divenendo un lusso non più compatibile con le tasche dei lavoratori. Figurarsi i disoccupati. Oggi, viaggiare è un affare per molti e un travaglio per pochissimi.

Vedo un sentimento di oppressione verso quell’idea di nazione sarda che per secoli ci ha contraddistinto, per il mantenimento di una indole e un Dna unici al mondo. Perché accade? Mi sono posto alcune domande: è così necessario seguire il progresso pur se il progresso ci costringe a mutilare la nostra natura? È ancora lecito dirsi e sentirsi sardi? Io osservo i musulmani. E imparo. Essi arrivano a Londra dai più disparati luoghi del globo. Entrano in fretta negli ingranaggi inglesi, si creano gli agi con i sussidi statali, poi costruiscono un modellino del loro universo culturale e lottano per farsi rispettare alla luce di tutti i diritti. Non cedono un millimetro alle ideologie imperversanti cui guardano con un sorriso beffardo. Indossano il velo, pregano, educano i figli ai valori tradizionali. E noi? Noi guai a professare un generoso attaccamento a sa bidda. Non sia mai confessare d’essere desulese. È la gogna. Guai a voler tutelare un’autenticità che secoli di generazioni ci ha intinto fin nelle ossa. Dobbiamo professarci atei del passato e, casomai, pronti a farci colonizzare come se solo da oltremare la civiltà potesse venire a salvare i nostri paesini spopolati e decadenti.

Altrimenti? Continuerà la retorica dei sardi grezzi, dei pastori vestiti a velluto, de s’acotzu, della incapacità a evolversi e assumere nuovi schemi produttivi, del formaggio svenduto in America e delle pensioni in procinto di esaurirsi. Insomma, per essere vivi e riconosciuti dobbiamo essere altro, dobbiamo aprirci, accogliere, abbandonare su connotu, abbracciare razze e popoli estranei, svendere le case agli americani, lasciarci bombardare, trasformare le aziende, lasciare il mercato ai cinesi, e infine farci da parte o al massimo intrattenere i turisti durante le sagre e le Cortes Apertas. In questo modo il nostro ruolo nel mondo avrebbe quel senso che il mondo vorrebbe cucirci addosso. Quello di custodi di agriturismi senza futuro fra una stagione e l’altra di vacanza. Ma a me fa male la pancia sentirmi annunciare un futuro da deprivati. Perciò avanzo ancora domande? Chi dice che un paese spopolato non si possa ripopolare dei sardi che tornano indietro? E chi dice che per tornare indietro occorra necessariamente riprodurre il mondo sicuro nel piccolo ambie nte di paese? Tutte balle. Riscopriamo le nostre certezze. Vi hanno solo convinto di essere nati nel posto sbagliato e che il velluto sia peggiore della fibra sintetica. Al diavolo l’emigrazione. Al diavolo la propaganda.

Operatore culturale a Londra

© Riproduzione riservata