T ra i vari temi che l’intelligenza artificiale suscita, alcuni hanno una importanza particolare, di nicchia forse, ma molto trasversale. Un esempio è quello del “Transumanesimo”, un misto tra hybris tecnica e canovaccio da racconti di fantascienza. Con l’IA si sta coagulando un settore che attraversa discipline scientifiche e sentire sociale, con contributi non sempre in accordo soprattutto tra settori scientifici “duri” (fisica, matematica, programmazione informatica) , umanistici (filosofia, sociologia) ed intermedi come biologia e medicina.

Q uesta nuova sponda di saperi derivati da interpretazioni sempre più ad hoc del ruolo e dei possibili impieghi della IA è quello che tra gli addetti ai lavori viene chiamato transumanesimo. Il punto di partenza è antico ed è ben radicato nella mente umana: aumentare le capacità del nostro cervello per poter assorbire, metabolizzare ed interpretare quante più nozioni si possa, avere sensi acuti che possano svelare spettri del sentire a noi preclusi. Insomma, quel che le pozioni magiche hanno sempre cercato ma stavolta con una notevole variante. Non il beverone druidico di Asterix ma sofisticati microchip inseriti in aree critiche (cosidetti Hub) del nostro cervello. Ci sarebbe anche una variante abbastanza raccapricciante nella fideistica attesa di queste possibilità rappresentata dalla crioconservazione (congelamento a basse temperature) del cervello di cadaveri.

I filosofi che hanno abbracciato questi programmi sono convinti che entro qualche decennio varie parti del nostro cervello potrebbero essere riparate o sostituite con circuiti sintetici, come ad esempio esiste già chi lavora nei primati a sostituzioni di parti di ippocampo, la minuscola struttura che è responsabile della formazione, integrazione e distribuzione ad aree corticali dei vari tipi di memoria ed il cui danno è in gran parte responsabile di importanti malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. Esistono due ordini di problemi che dovrebbero convincerci a spendere il nostro tempo (e montagne di danaro) in altre direzioni, per esempio rendendoci sempre più coscienti di cosa fare con l’IA e cosa non fare. Il primo problema è tecnico, il secondo umanistico. Tecnicamente, insistere in questo settore con programmi basati sugli algoritmi di machine learning, deep learning e loro varianti è l’equivalente della ricerca della pietra filosofale. È infatti impossibile connettere un sistema a variabili limitatissime con uno complesso con miliardi di varianti, ammesso e non concesso che potessimo trovare il sistema di connessione silicio-carbonio; ma, anche trovando il modo di eseguire questo salto tecnico impressionante, non potremmo che impiantare un programma rigido che eseguirebbe in modo “zombesco” e dissociato ciò che la coscienza fa regolarmente nell’associare quotidianamente corpo e mente.

La conseguenza, e qui intervengano i filosofi, è che se anche potessimo spingere all’estremo di sostituzione in sostituzione parti del nostro cervello, si porrebbe il problema solidamente affrontato dal medico e filosofo John Locke quasi quattrocento anni fa sull’identità personale visto che un cervello così potrebbe essere scaricato ad libitum in chissà quanti simpatici androidi. Insomma, il “conosci te stesso” del tempio di Apollo tanto caro a Socrate rischierebbe, se posto dopo un simile trattamento, di creare un cortocircuito fatale con sinistri sfrigolii all’interno della scatola cranica cui corrisponderebbe magari il programma di eseguire l’urlo di Munk, piccolo ultimo omaggio alla creatività umana.

Neurologo

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