L a premier finlandese Sanna Marin è arrivata terza alle elezioni. Prima, per quanto di un’incollatura, si sono piazzati due partiti etichettati dalla stampa internazionale rispettivamente come “conservatore” e “sovranista”. Marin, giovane e attraente, era nota per aver accresciuto il debito pubblico e portato la Finlandia fuori dalla sua tradizionale posizione di neutralità, in seno alla Nato. Per l’una cosa e l’altra è stata molto applaudita, anche in Italia. Non sono bastate a garantirle il favore degli elettori.I contesti politici nazionali hanno specificità e sfumature che solo chi li segue con continuità può commentare a ragion veduta. Ma certamente stupisce un po’ una dinamica ormai ricorrente. I grandi giornali, sicuramente i meglio informati sull’opinione pubblica, tendono a collocare tutta una serie di opinioni “scorrette”, eccentriche rispetto a quelle dominanti, sotto l’etichetta del “populismo”. Coloro che queste opinioni in qualche misura le condividono sono invitati, per le spicce, a non uscire dal silenzio, rappresentando essi una tribù di neandertaliani riapparsi misteriosamente nel bel mezzo della civiltà.

A un certo punto appare all’orizzonte un capo politico: telegenico, efficace, perfettamente allineato con le opinioni dei buoni e dei giusti. Si trova a gestire una situazione complicata: la pandemia, per esempio, o la guerra. Sa decidere senza paura, restando perfettamente allineato o allineata al consenso emergente fra intellettuali e classi colte.

C he producono una sorta di profezia: i neandertaliani hanno i giorni contati, è arrivato chi finalmente saprà far capire a tutti la bontà delle nostre ragioni. Il giorno delle elezioni i profeti se ne tornano a casa con le pive nel sacco.A leggere che i finlandesi si sono arrabbiati con i loro governanti per il debito pubblico ci si commuove: a fine 2023 dovrebbe arrivare al 73% del Pil, per i nostri standard un’inezia. Era però attorno al 50% del Pil prima della pandemia e nella vicina Svezia è il 31% del Pil (sì, un altro mondo è possibile). L’aumento della spesa e il rifiuto di austerità e tagli non sono più, come alcuni anni fa, posizioni “populiste” ma appartengono al mainstream, non solo italiano. Alla maggiore spesa pubblica si è affidato il contrasto alla pandemia (a cominciare dalla necessità di indennizzare le persone che non hanno potuto svolgere le proprie attività), la guerra in Ucraina è coincisa con un ritocco verso l’alto delle spese militari, sempre sui quattrini del contribuente si fa affidamento per spingere investimenti verdi e transizione ecologica.Le abbondanti iniezioni di quattrini pubblici dovevano servire ad allineare le preferenze degli elettori con quelle delle classi dirigenti. Ma se di norma la spesa pubblica tende a garantire consenso, non è necessariamente così se gli impieghi sono controversi. Queste controversie possono derivare senz’altro da una cattiva informazione delle persone ma non possono esaurirsi, in un dibattito democratico, nella messa al bando di chi non è d’accordo in quanto ignorante, “deplorevole” per citare Hillary Clinton, neandertaliano.In tutto il dopoguerra, le classi dirigenti occidentali hanno fatto scelte giuste o sbagliate, a posteriori senz’altro discutibili, ma sempre privilegiando l’ascolto dei loro elettori. L’identificazione fra quelle élite e i rispettivi “popoli” si basava su una condizione non tanto e non solo della direzione di marcia, ma del processo con il quale la si sceglieva. Mai quelle classi dirigenti, liberali o socialdemocratici che fossero, hanno optato per il monologo. Questo invece fanno oggi, quasi ovunque: se la cantano e se la suonano, si dicono “bravi” a vicenda, si riconoscono vicendevolmente e tutta la loro strategia, politica e comunicativa, consiste nel tentativo di disegnare un recinto attorno a chi non la pensa come loro. Su temi che sarebbero, per loro natura, controversi, dalla guerra alla maternità surrogata, non accettano dibattito. I partiti di centrodestra sono affrancati dal marchio “populista” solo se convergono su posizioni ritenute più “accettabili”. Per la signora Thatcher “there is no alternative”, non c’è alternativa, era un’esortazione a guardare la realtà del bilancio pubblico e ricordarsi che le risorse sono sempre e comunque scarse. Per tutta la vita aveva dovuto fronteggiare un’opposizione agguerrita, mai avrebbe pensato che altre idee politiche non avessero diritto di cittadinanza. Oggi chi dice che la crescita non si fa con più spesa pubblica è di fatto ostracizzato dai consessi che contano.Poi, a un bel mo mento, arrivano le elezioni. E questo consenso apparentemente infrangibile si sfarina in pochi istanti.Due sono gli elementi paradossali. Il primo è che le classi dirigenti perdono regolarmente la prova elettorale, ma poi ricominciano esattamente come prima. Anziché provare a persuaderli, pensano che gli elettori debbano solo ascoltare e annuire. Sconfitte politiche e proteste di piazza non insegnano nulla. Il secondo è che, simmetricamente, chi si rivolta nelle urne poi prima o dopo le elezioni non prova nemmeno ad articolare un pensiero. Il problema non sono le tensioni tra popolo ed élite: è che, come certe coppie, preferiscono detestarsi senza parlarsi.

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