I n un’epoca dominata da un’accelerazione sempre più straniante, la morte della regina Elisabetta II – che in settant’anni di regno ha visto sfilare davanti a sé sette papi, quindici presidenti americani e quattordici primi ministri inglesi – non rappresenta soltanto la conclusione di un regno, ma soprattutto l’estinzione della stabilità. È questa consapevolezza che, più di tutto, sconcerta: è la perdita di un punto di riferimento a turbare chi ha sempre visto in lei un raro esempio di continuità e un ammirevole senso del dovere.

T ra i segreti che hanno reso possibile il suo granitico permanere ci sono senz’altro la parsimonia delle sue apparizioni, la scelta oculata delle parole pronunciate pubblicamente e il costante sottrarsi ai tumulti politici. Ma attenzione: Elisabetta II non è mai stata uguale a se stessa e, al contrario, ha sempre saputo evolversi, adattandosi con sapienza allo scorrere del tempo, senza venirne mai travolta.

La regina che china il capo in segno di riverenza davanti al feretro di Lady Diana Spencer è una donna che compie un atto contrario alle proprie convinzioni, ma necessario a preservare l’istituzione della monarchia. Allo stesso modo, l’anziana regnante che recita sketch esilaranti insieme a James Bond e a un cartone animato – l’orsetto Paddington – è un monarca lungimirante, che ha scelto di fare un compromesso, pur di restare in sintonia con le nuove generazioni e mantenere l’ammirazione dei propri sudditi. La regina che, a poche ore dalla propria morte, continua instancabilmente a lavorare ricevendo a Balmoral Liz Truss per incaricarla di formare un nuovo governo, è una donna fragile nel corpo ma fortissima nell’animo: disciplinata, instancabile e immensamente determinata.

Avevamo bisogno di lei, del suo “restare” e del suo trasmetterci l’intuizione che la perseveranza fa miracoli e che, a guardar bene dentro di noi, ci sarà sempre il modo di trovare la forza per affrontare ogni difficoltà.

Chi, come me, ha avuto il privilegio di incontrarla si è potuto rendere conto che la regina d’Inghilterra era, in fondo, una donna semplice. Nel 2003 avevo 26 anni e lavoravo come Executive Officer per il South Bank Center di Londra. La regina Elisabetta e il principe Filippo annunciarono che avrebbero visitato una mostra alla Hayward Gallery e, così, venne chiesto ad alcuni dipendenti di attendere, ben allineati, davanti all’ingresso del museo. Presto una speciale automobile nera arrivò. La donna che ci ritrovammo davanti era esile, minuta e indossava un twin set di lana. Si fatica a crederlo: ma, nella sua esorbitante straordinarietà, sua Altezza Reale Elisabetta II sapeva comunque mantenere i piedi per terra. “Nessuno di noi vivrà per sempre” disse nel novembre dello scorso anno in un messaggio registrato, trasmesso durante la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, a Glasgow. Ancora una volta, parole scelte con cura per alludere e suggerire, senza bisogno di dover dire apertamente. È stata questa la sua più grande abilità: parlare solo a proposito e mai troppo spesso. Un comportamento preziosissimo in un mondo sempre più chiassoso in cui strillare sembra essere diventato l’unico modo per meritare l’attenzione degli altri.

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