D a una settimana l’Italia discute della doppia mossa (una delle quali a sorpresa) di Giorgia Meloni: la prima è stata quella di annunciare la costruzione di ben due centri “di identificazione” in Albania per i migranti arrivati in Italia. E la seconda è stata quella di buttarsi nella campagna per la riforma Costituzionale del premierato. La prima scelta, ovviamente, ha creato stupore: una operazione gestita interamente da Palazzo Chigi, costruita di nascosto durante le proprie vacanze estive, e comunicata a sorpresa senza informare il ministero degli Esteri e degli Interni.

E lasciando di stucco Antonio Tajani, ma anche Matteo Salvini. Un pilastro in vista della campagna delle europee, quando i centri saranno appena attivati, e tutta l’Europa non discuterà di altro. C’è davvero qualcosa di inedito e dirompente, se “l’operazione Albania” lascia spiazzati più gli alleati che gli avversari, e se in questo azzardo Giorgia si ritrova come sponda un esponente del partito socialista europeo come il premier albanese Edi Rama. “Per questo progetto va buttato fuori dal Pse - ha attaccato suscitando clamore il responsabile Esteri del Pd Peppe Provenzano - la scelta dell’Albania nega l’identità solidale dei socialisti europei”. Rama ovviamente gli ha risposto duramente: “Il nostro è un gesto di gratitudine e di amicizia verso l’Italia e la sua presidente del Consiglio. Non lo faremmo per nessun altro. Questi del Pd sono matti, noi stiamo cercando di dare, insieme, la risposta ad un grande problema epocale”. E pare che persino il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholtz stia meditando un progetto simile.

A dimostrare che grande è il disordine sotto il cielo, ci sono però le parole durissime dell’ex premier albanese di centrodestra Sali Berisha (che della Meloni tecnicamente dovrebbe essere alleato), e che invece si è detto deluso dalla sua mossa: “È un accordo pericoloso. Produrrà danni al nostro turismo e rischi di xenofobia”.

Cosa collega dunque le due mosse, apparentemente prive di qualsiasi legame? Di sicuro una grande ambizione della leader di Fratelli d’Italia. Se infatti la Meloni non si preoccupa di spiazzare gli alleati e di avere come sponda privilegiata un premier socialista (e dunque come nemico un premier conservatore), è perché la grande idea, in tempi di ristrettezze, è quella di fare della sua personale diplomazia una leva per proporsi all’opinione pubblica come statista. Non ci sono soldi per fare una finanziaria di spesa, la congiuntura internazionale è disastrosa, è dominata dai conflitti, la riforma del Patto di stabilità è una seria minaccia per il bilancio dell’Italia gravato dal debito pubblico, ma è come se la presidente del Consiglio volesse dire agli italiani: guardate cosa riesco ad inventarmi per provare a risolvere il problema degli sbarchi.

Il secondo punto, invece, è più sottile ma non meno importante: mentre avvia di fatto la campagna sul premierato con un lunghissimo video, girato nel corridoio di Palazzo Chigi, proprio dove si trovano appesi tutti i ritratti seppiati dei presidenti del Consiglio del passato, è come se la Meloni stesse cercando già di trasmettere un potente messaggio subliminale agli elettori: loro sono il passato in bianco e nero, io sono il futuro a colori. È come se stesse dicendo: io sono già la prima presidente del Consiglio del futuro, la mia riforma non fa che radicare questo stato di fatto.

Ed ecco la parte più difficile e ambiziosa: per non fare la fine di Matteo Renzi, che prometteva agli italiani una palingenesi politica (“La grande riforma”) e si spingeva fino alla promessa di abbandonare la politica in caso di sconfitta al referendum c onfermativo costituzionale, è come se Giorgia dicesse: io sono già quello che voglio diventare, il referendum è una formalità che ratifica questa condizione. Una strategia raffinata: anche se le grandi scommesse, in politica, producono sempre grandissimi rischi.

© Riproduzione riservata