C he cosa sono di preciso gli “extraprofitti”? Fra gli economisti e gli studiosi questa domanda non incontra risposte granché chiare. Bisognerebbe allora rivolgerla ai nostri governanti, che lunedì hanno varato una nuova imposta sugli extraprofitti. Il governo Draghi aveva tassato quelli delle imprese energetiche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Il governo Meloni tassa le banche dopo il rialzo dei tassi della Banca centrale europea. A paragonare le due tasse e i due governi, parrebbe che gli extraprofitti siano i profitti molto elevati.

P rofitti ottenuti in condizioni nelle quali cambiano i rapporti di scarsità, in modo che viene interpretato assai favorevole per i produttori. Diminuendo la disponibilità di gas e petrolio russo, quelle fonti energetiche diventavano più scarse: per questa ragione, i prezzi dovevano aumentare. I prezzi, infatti, di norma fanno proprio questo: se la domanda rimane invariata ma la disponibilità di un certo bene o servizio si riduce, i prezzi salgono. Viceversa, se la domanda si riduce e la disponibilità rimane invariata, i prezzi scendono. Per il governo Draghi, quei prezzi più alti significavano profitti maggiori rispetto al giusto, dei quali pertanto l’erario doveva esigere una fetta più ampia.

Con le banche la situazione è più ingarbugliata. Col salire dei tassi, aumenta anche la rata del nostro mutuo, se l’abbiamo stipulato a tasso variabile. Un tempo era più favorevole di quello a tasso fisso, ora è il contrario. I tassi d’interesse hanno invece un rapporto inversamente proporzionale ai prezzi delle obbligazioni. Questi ultimi salgono se i tassi si abbassano, scendono se i tassi si alzano. Le banche hanno molte obbligazioni in portafoglio, per obblighi regolamentari. Il governo Meloni non è andato molto per il sottile. Ha visto alzarsi le rate del mutuo, ne ha concluso che ciò significasse profitti maggiori rispetto al giusto e che l’erario dovesse, anche stavolta, esigerne una fetta più ampia. Quale è il “giusto” livello dei profitti? Non lo sa nessuno, esattamente come nessuno sa quale sia il “giusto” prezzo di questo o di quel bene. Ciascuno di noi può dire al massimo quale sia il prezzo “giusto” per lui, quanto siamo disposti a pagare o, con uno sforzo di fantasia, quanto saremmo disponibili a sborsare se ne avessimo i mezzi per un ombrellone in spiaggia o un attico sul Canal Grande. Sono tanti i prezzi che ci sembrano troppo alti, di solito per merci che non ci aggradano. La nostra cultura, dai tempi dei romani, tende del resto ad associare alti guadagni e comportamenti criminosi.

Il governo, quindi, può tassare le banche, esattamente come prima si sono tassate le imprese energetiche, senza temere contraccolpi di consenso. Se non che all’imposta sui profitti “extra” corrisponde, com’era prevedibile, una caduta dei corsi di borsa delle aziende coinvolte: e i titoli bancari figurano fra i risparmi di molti italiani. I quali possono anche ammirare lo spirito dell’extra gabella, ma per ora non ne hanno benefici bensì solo un danno. Gli introiti della misura dovrebbero servire “a ridurre le tasse”. Per ora sono aumentate. Si dirà che le banche non sono cittadini in carne e ossa. Ma danno lavoro a cittadini in carne e ossa, le loro azioni e obbligazioni entrano nel paniere di risparmi di cittadini. L’aritmetica di un provvedimento simile, dunque, è meno semplice di quanto pare all’attuale governo o ai suoi predecessori. In una economia complessa, persone e aziende sono legate assieme da fili invisibili e spesso aggrovigliati. Per questo il buon governo dovrebbe deliberare dopo aver fatto di tutto per accertare i poss ibili effetti, immediati e futuri, delle proprie decisioni. Invece il governo Meloni ha scelto di decidere in tempo reale: di rispondere all’ansia per la rata del mutuo o per il prezzo del biglietto aereo. Oggi incassa applausi, domani si vedrà.

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