“T utti gli Stati europei sono vulnerabili, assistiamo a un ritorno del terrorismo islamico e tutti siamo esposti al pericolo, perché è ciò che deriva dall’essere una democrazia, uno Stato di diritto dove vi sono individui che in un dato momento possono decidere di commettere gli atti peggiori”. Così il Presidente francese Emmanuel Macron si è espresso poche ore dopo il vile attentato di Bruxelles, dove due tifosi svedesi sono stati freddati in un attacco terroristico, colpiti a morte da un tunisino che ha dichiarato di ispirarsi allo Stato Islamico.

U na brutale esecuzione, “direttamente mirata alla Svezia e ai cittadini svedesi solo perché svedesi”, come ha dichiarato il Primo ministro svedese Ulf Kristersson, che avviene a pochi giorni di distanza dall’omicidio in Francia, nella piccarda Arras, di Dominique Bernard insegnante ucciso da un ex studente radicalizzato, che anch’egli aveva dichiarato di ispirarsi all’Isis. Due episodi di cieca violenza che hanno colpito cittadini inermi, avvenuti in un momento di estrema preoccupazione per la sicurezza in alcuni Paesi europei legata ineluttabilmente al conflitto in corso tra Israele e Hamas.

La paura torna dunque nelle strade dell’Europa, a Bruxelles, già mortalmente ferita dagli attacchi del 2016, in Francia e a Parigi, dove lunedì è stato ricordato l’insegnante di storia Samuel Paty, decapitato il 16 ottobre 2020 fuori dall’edificio scolastico nel quale lavorava, in un sobborgo della capitale. Lo stato di maggiore vigilanza legato alla guerra in corso in Medio Oriente, inevitabilmente scattato dopo le stragi di civili compiute da Hamas in territorio israeliano, non ha solo aumentato la tensione in diverse nazioni europee, intensificando il nervosismo soprattutto in Francia, dove risiede un vasto numero di cittadini ebrei e musulmani, ma anche riportato all’attenzione dell’Europa il problema del terrorismo. L’accurato controllo dei confini dell’Unione europea e il rafforzamento della sicurezza sono così prepotentemente tornati al centro dell’agenda di Bruxelles, ancora una volta colta impreparata sul piano internazionale dalla guerra tra Israele e Hamas.

Molto più evidenti sono sia le posizioni assunte dagli Stati Uniti, storici alleati di Israele nel quadrante mediorientale, sia quelle dei diversi paesi dell’area, a eccezione dell’Egitto e della Giordania di Abd Allah II. Entrambi confinanti con lo Stato palestinese, i due Paesi infatti hanno mantenuto un approccio più cauto, anche perché seriamente preoccupati dalle possibili, nefaste conseguenze dell’estensione del conflitto sul piano umanitario. È soprattutto l’aumento della tensione nella Cisgiordania occupata, con scontri tra coloni armati e abitanti palestinesi sempre più difficilmente contenuti dalle forze militari israeliane e non debitamente evidenziati da buona parte della stampa nazionale e internazionale, il fattore che potrebbe contribuire a spostare, più o meno forzatamente, un importante flusso di rifugiati palestinesi verso la Giordania, Paese che già ne ospita oltre due milioni, oltre il 90% dei quali gode della piena cittadinanza.

Plauso ad Hamas è giunto da molti Paesi dell’area mediorientale: dall’Iran e dai suoi “vassalli” siriani e libanesi, dal Qatar, l’alleato di ferro del regime di Teheran, dall’Iraq. Questa convinta adesione alla causa palestinese appare però sospetta nei modi e tempi in cui si realizza: essa emerge puntualmente nei momenti di estrema tensione con Israele, ma scompare con la “normalizzazione” della situazione. Più che una reale attenzione alle sofferenze dei palestinesi il sostegno di tali Paesi appare una solidarietà di maniera, strumentale per combattere un nemico comune, più che un aiuto concreto al martoriato popolo palestinese, che giustamente meriterebbe un destino migliore di questo.

Università di Cagliari

© Riproduzione riservata