C on il suo accenno a Dante, padre nobile della destra italiana, il Ministro della Cultura ha dato la stura ai commenti più disparati. Non che non potesse farlo, nonostante il levar di scudi di una traballante sinistra e non solo; ognuno elegge a nume tutelare chi vuole. Ma qui non si tratta di questo, quanto, piuttosto, del fatto che il ministro abbia invocato il Sommo Poeta per giustificare scelte politiche di parte, pur senza immaginarlo, sarebbe stato troppo! nel ruolo di consigliere del principe.

Polemiche a parte, è tornata a mente la funzione fondamentale dell’intellettuale. Il tema è ghiotto e sempre attuale: chi è oggi l’intellettuale? L’esperto e uomo di scienza, come al tempo del Covid in fase acuta, o l’intellettuale engagé, che mai dismette d’esserlo, o l’artista, all’occorrenza opinionista?

Nel tempo di internet, quando le voci si sovrappongono in una chiassosa e uguale cacofonia, la domanda ha ancora senso. Senza parlare dei massimi sistemi, qua si preferisce restringere l’ambito alla sola isola di Sardegna, connessa al vasto mondo nel quale galleggia, pur nella sua specificità. I problemi sono tanti, alcuni rilevati dai dati Istat, come la carente istruzione, la sanità al tracollo, soprattutto nelle zone lontane dai centri del potere.

E ancora l’annoso problema della continuità territoriale e la recente consapevolezza del trasporto interno inadeguato, quindi lo spopolamento, il peggiore dei problemi, legato, per quanto riguarda i giovani, alla mancanza di attrattiva di una regione, vista nella sola stagione estiva, come meta di vacanza.

Che fare, al dire di troppi? Se la politica deve dare risposte, e tuttavia si mostra indolente, il cittadino ha il dovere di vigilare e pungolare, ed è qui che interviene quella figura così importante che pare mancare nelle varie declinazioni, nonostante voci si alzino or qua or là con il cahier de doléances sempre dischiuso. Forse è giunto il tempo che la nostra isola riconosca quello che si potrebbe chiamare “l’intellettuale diffuso”, a tutt’oggi sconosciuto ai più, per colpe della scuola e della politica. Della scuola che non ha un’anagrafe di quanti si sono affermati una volta concluso il ciclo di studi, e della politica che preferisce spesso vivere l’hic et nunc.

Quanti si lagnano, a ragione, dei giovani d’oggi che, fuori, si realizzano, si limitano al dato di fatto, senza tuttavia considerare che essi, nel mondo, sono portatori/testimoni della nostra Cultura e di quel che a essa è congiunto.

È a loro, presenti in vari campi con conoscenze e competenze di vario genere, ma consapevoli dei problemi della loro isola, che occorre ridare il volto e la parola, non solo attraverso i media tradizionali, ma online, con i blog, le conferenze, la presentazione di libri, le interviste, l’appartenenza ad associazioni. La realizzazione e il successo di tanti giovani sono il miglior biglietto da visita di una terra, impoverita senz’altro dalla loro perdita, che può tuttavia diventare temporanea se si raccolgono le loro voci, e non perché altre, si è detto, siano assenti. Si parla anche troppo, talora a sproposito.

Non si vogliono, tuttavia, stilare graduatorie, semmai chiamare a raccolta quanti hanno mantenuto rapporti familiari e amicali, per costruire la nostra storia anche al di là dei luoghi, del Luogo. Accanto a chi ricompone il nostro passato, e lo fa in modo egregio, si dovrebbe scrivere, anche con il loro apporto, la storia contemporanea e il futuro dell’isola in quello che, con Ernest Renan, potremmo chiamare l’eveil, il risveglio. Con i giovani sardi lontani, ma non assenti seguaci di Epicuro, si potrebbe guardare il qui e l’oltre da tanti punti di vista, piuttosto che contemplare esclusivamente il nostro perimetro.

Chi meglio di quanti vivono fuori dall’isola, siano essi nella penisola o oltre confine, può assumere su di sé quella funzione cosmopolita, rubando il termine a Gramsci, particolarmente importante nel tempo della globalizzazione? Forse anche in questo modo si può dismettere quell’esclusivo ruolo di nunzi della disperazione, come alcuni fanno, per assumere l’atteggiamento cooperativo di chi ha maturato un’esperienza alternativa al vivere nel proprio paese natio, e si riuscirebbe, è bene sperarlo, a superare la maledizione dello stereotipo che spesso ci accompagna: d’essere pochi e disuniti.

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