D a Singapore prendo un aereo per Bangkok. Dire che ci sono una dozzina di voli al giorno e che spendo meno di un Olbia-Milano è poco elegante, non voglio ritornare sul tema della continuità territoriale, non nutro speranze. Sono peraltro preparato ad affrontare il prossimo viaggio per la Sardegna mettendo in conto le solite corse e le lunghe attese in aeroporti di transito, e sono rassegnato anche alle annoiate domande che seguono i miei ritorni. Lo so, l’Asia è lontana dal nostro sentire, così come, viceversa, appare da qui impalpabile una sconosciuta isola di una remota e silente Italia.

S ono alla fiera della cosmesi, quest’anno ospitata a Bangkok e incentrata sul tema della natura e della sostenibilità, e mi muovo tra uno stand e l’altro cercando di assorbire il più possibile da un settore che cresce con percentuali a due cifre e stupisce. Vedo proposte di ogni parte del mondo, della Nuova Zelanda come della Corea, Giappone, Hawaii e ovviamente Cina, della Germania come dell’onnipresente Francia; faccio conoscenza con decine di professionisti appassionati, chimici, biologi, biotecnologi, ingegneri, ma anche esperti di packaging, di logistica, di marketing e comunicazione, di sostenibilità ambientale, ecc. Migliaia di persone che prendono la metro e s’incontrano in questo enorme spazio espositivo, mangiano in mense efficienti, continuano gli incontri, le discussioni e le lezioni – molte conferenze e confronti – sino alle cinque del pomeriggio, ora di smobilizzo.

Solite giornate di fiera, è vero, ma il problema è l’accorgersi di quanto la presenza dell’Italia stia impallidendo nel tempo – mi fa male. E interrompo il discorso per interrogarmi, in mezzo a questa moltitudine di genti, sulla mia identità: mi sento, che so, europeo? È un sentimento che non provo, confesso, ma che qui diventa oltretutto privo di sostegno, d’energia: dov’è l’Europa, com’è rappresentata, visualizzata, cantata? Non esiste. Mi sento invece italiano? Il mio passaporto non mente, non mentono i miei ultradecennali sforzi per difendere il “made in Italy” e in fondo tutta la mia carriera professionale, ma io continuo a sentirmi, anche qui a Bangkok, totalmente e disperatamente sardo, devo ammetterlo. Sono un sardo al Cosmex e guardando intorno stupende pubblicità che niente hanno a che vedere con la squallida “Investiamo nell’Italia” che campeggia ultimamente nei nostri media; osservando magnifici video della natura, degli oceani, delle piante (l’estrazione di elementi essenziali dall’aloe fatta da una società cosmetica thailandese mi ha confuso; quella ottenuta dal carciofo da una società indiana mi ha definitivamente messo al tappeto); toccando con mano cosa si può fare restando in ambito naturale; bombardato da colori, ingredienti, prove scientifiche, prodotti finali meravigliosi – allora mi chiedo: come mai non c’è la Sardegna?

Cosa ci manca per competere, per fare ricerca e sviluppo ed emergere? Ci manca forse la natura? Il mare, alberi e arbusti, il vento? Ci mancano per caso decine di piante autoctone con incredibili proprietà, da utilizzare per migliorare la nostra vita? O vitigni originari, alberi millenari, cascate, valli e fioriture mozzafiato? Faccio un torto innanzitutto all’amico Ignazio Camarda se dimentico il patrimonio naturale descritto nei suoi libri. Ma allora, perché non c’è traccia di Sardegna nel mondo, perché non siamo capaci di lasciare un nostro segno di riconoscimento almeno in termini di bellezza e sostenibilità? In settant’anni di autonomia non abbiamo imparato neanche a comunicare, a essere coerenti con quanto ci hanno insegnato i nostri centenari, ovvero l’importanza della vita comunitaria, del lavoro, del ricorso terapeutico alla natura? È possibile che non riusciamo a uscire dal concetto di “vetrina”, dal vantare come merito quanto ci è stato dato dal buon Dio, senza aggiungere una qualsiasi realizzazione di valore – non incendi, pale eoliche e servitù?

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