D opo i pareri favorevoli di Camera e Senato, sta per entrare in vigore la riforma Cartabia che si propone di ridurre i tempi processuali, come richiesto dall’Unione europea per l’erogazione dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Come si sa, il nostro è il Paese più condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo proprio per l’eccessiva durata delle sue procedure giudiziarie e l’Unione europea eroga i fondi del Recovery fund solo a condizione che la giustizia italiana sia riformata assicurando tempi ragionevoli ai processi.

S olo il tempo dirà se questa riforma, annunciata come la panacea di ogni male, risolverà davvero i ritardi della nostra giustizia. Chi ha una certa esperienza sul campo sa che è da cinquant’anni che salutiamo riforme, ogni volta annunciate come epocali, che invece hanno lasciato le cose come stavano.

La riforma ha certamente il merito di prevedere pene alternative al carcere, che finora era considerato “la pena” per definizione, in un sistema “carcero-centrico” tutt’oggi imperniato sulla detenzione in cella. Ora invece il giudice potrà condannare alla semilibertà sostitutiva e alla detenzione domiciliare sostitutiva in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni, mentre il lavoro di pubblica utilità sostitutivo potrà essere applicato dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni. In caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno il giudice potrà condannare alla pena pecuniaria sostitutiva. In questo modo sarà lo stesso giudice del dibattimento ad applicare la pena sostitutiva, senza necessità di rivolgersi, dopo la sentenza definitiva, al tribunale di sorveglianza.

Sul versante processuale si introduce il processo penale telematico, che dovrebbe accelerare il processo, riducendo i tempi delle notificazioni degli atti. Il fascicolo processuale sarà informatico e la partecipazione alle udienze potrà avvenire a distanza. Si prevede una maggiore tutela per la vittima del reato, che finalmente riceve riconoscimento formale nel codice, che lo definisce la persona fisica che ha subìto direttamente dal reato qualunque danno patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona. Ma soprattutto la giustizia cambia volto e non è solo repressiva, ma riparativa: sono infatti previsti programmi che, per ogni reato, consentono alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore. In questo modo il processo tenderà a riavvicinare vittima e autore dell’offesa, così da riparare al mal fatto ed evitare che il reato possa ripetersi. In definitiva, la riforma ambisce a realizzare una giustizia più efficiente, che tende a riconciliare vittima e autore del fatto. Ma non è detto che tale nuovo modo di amministrare giustizia riduca la durata dei processi. E l’Europa ci ha chiesto proprio questo, condizionando l’erogazione dei fondi alla riduzione di almeno il 25% dei tempi processuali.

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