F orse il “pericolo fascista” non è poi tanto pericoloso. È difficile trarre deduzioni diverse dalle vicende del centrosinistra di questi giorni.

Ricapitoliamo. Nel tentativo di federare una coalizione ampia, che gli consentisse di disputare qualche collegio uninominale al centrodestra, Enrico Letta ha rilanciato un classico della politica italiana: il “giù le mani dalla Costituzione”. Attenzione. La logica non era tanto quella di fare, come è stato scritto, un’armata Brancaleone per vincere le elezioni. Ciò avrebbe rappresentato enormi problemi, Letta, che non è l’ultimo arrivato, lo sapeva benissimo e non si è mai sognato di decidere sui rigassificatori (o su alcunché) con Bonelli e Calenda. L’argomento era diverso: dobbiamo impedire al centrodestra di avere una maggioranza tale da poter mettere mano alla Costituzione.

Questo castello retorico è stato spazzato via dalle onde dei sondaggi e della robusta reazione dei militanti politici calendiani, i quali avevano cominciato a disertare “Azione” alla spicciolata dopo l’accordo col Pd. Dal punto di vista delle percentuali, il 25 settembre sapremo se Carlo Calenda ha fatto una scelta saggia o se si avvia a essere l’ennesima meteora che attraversa il centro della politica italiana.

S enz’altro però il collasso del “fronte democratico” rivela un segreto di Pulcinella: la democrazia non corre alcun pericolo a settembre. La compagine di governo che uscirà dalle urne potrà essere più o meno coerente, probabilmente avrà come unica idea di politica economica quella di accrescere ancora il debito, prometterà di abbassare le tasse senza riuscirci, eccetera. Però i rischi “eversivi” sono solo un trucco, usurato, per mobilitare alcune frange di elettorato. La chiamata alle armi era giustificata dalla proposta di introdurre il presidenzialismo. È una vecchia idea, più volte entrata senza successo nel dibattito. Metterebbe a rischio la nostra democrazia?

I presidenzialisti si dividono in due partiti: quelli che vorrebbero i cittadini scegliessero il premier, coloro che vorrebbero lasciar votare loro il Capo dello Stato. In questo secondo caso, è difficile non vedere la necessità di una riforma. Per due volte, negli ultimi dieci anni, il Parlamento ha votato per un secondo mandato il Presidente uscente. Nel bellissimo discorso tenuto per la sua rielezione, tutt’oggi una analisi rigorosa e impietosa dei guai della politica italiana e forse l’esempio più alto di retorica politica di tutta la cosiddetta seconda repubblica, Giorgio Napolitano sottolineava come si trattasse di una scelta eccezionale per tempi eccezionali, dal momento che “la non rielezione, al termine del settennato, è l'alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica".

La presidenza della repubblica è il premio più ambito della vita politica italiana, eppure per due volte i partiti non hanno saputo disputarsela. L’impressione è che la politica italiana abbia disimparato a decidere, come si vede anche dal ricorso a premier esterni al suo perimetro non solo quando c’è da tirare la cinghia (come con Dini e con Monti) ma anche quando c’è da largheggiare coi soldi del Pnrr. Le stesse nomine, un tempo terreno di gioco d’elezione delle forze politiche, arrivano a rilento. Per tacere di cose più nobili: come un po’ dappertutto, in Occidente, il Parlamento non legifera più, cosa che invece fa il governo, del quale è diventato una sorta di svogliato notaio.

Le riforme costituzionali non sono una panacea, hanno bisogno di essere messe a punto con saggezza, devono accompagnarsi a mutamenti nella cultura politica. Chiacchiere a parte (pensate a come fu montata l’opposizione alla riforma elaborata sotto i governi Letta e Renzi), la seconda parte della Costituzione, quella che attiene all’ordinamento della Repubblica, non è mai stata intoccabile. L’abbiamo appena modificata per ridurre il numero dei parlamentari! Il confronto fra i partiti dovrebbe essere su “quali” riforme affrontare. Ma il presidenzialismo non può essere tabù, soprattutto quando siamo innanzi all’anomalia di un Capo dello Stato destinato a restare in carica quattordici anni, ovvero quanto tre Presidente americani “e mezzo”, senza elezione popolare.

Il voto ovviamente rafforzerebbe la figura del Presidente. Questi è già oggi molto più forte ch e in passato, in larga misura a causa dell’inanità dei partiti. Sbaglia chi pensa che un Presidente eletto avrebbe necessariamente un profilo diverso, più “partigiano”. La risposta degli elettori è diversa a seconda della domanda che viene loro posta. Pensate alla Francia, dove il presidenzialismo è l’argine più forte contro gli estremismi. Non perché i francesi siano molto più “moderati” di noi ma perché nell’elezione del Presidente la domanda che viene loro posta non è: quale partito ti piace di più quanto invece: chi deve rappresentare la Francia. È difficile prendere sul serio chi bolla come “fascista” un sistema voluto dal generale De Gaulle e che regolarmente allontana Marine Le Pen dal cuore della politica.

Direttore dell’Istituto “Bruno Leoni”

© Riproduzione riservata