C ome si fa la pace in Ucraina? Mai come nell’anniversario del 25 aprile questo tema è tanto attuale. Ha ragione Sergio Mattarella, quando dice che in Italia, nel 1945, la pace è arrivata grazie alle armi degli alleati e dei partigiani. Ed è altrettanto opportuno ricordare, subito dopo, che in questo nostro martoriato Paese, nessuno di coloro che le aveva impugnate, quelle armi, era orgoglioso di essere stato costretto a sparare e ad uccidere.

Se si vuole capire il dramma della Resistenza, quello di chi è stato costretto a combattere contro l’invasore - oggi come ieri - bisognerebbe rileggere di nuovo pagine che sembrano attualissime. Parlo di libri che non invecchiano mai, da Beppe Fenoglio a Italo Calvino, da “Il partigiano Johnny” a “Il sentiero dei nidi di ragno”: pagine in cui la guerra, anche quando e necessaria, non è mai raccontata come bella.

Ecco perché la discussione sulla legittimità della Resistenza ucraina, e sull’opportunità di sostenerla, mi sembra folle: non c’è dubbio che si debba aiutare a resistere chi viene invaso, e questo (anche) noi italiani lo stiamo facendo già. Ma la differenza fra dare le armi e invocare il cessate il fuoco (e la trattativa) è la stessa che passa tra un ricovero in un pronto soccorso e uno in ospedale, per una operazione che sia necessaria a guarire da un brutto male. Per liberarsi di un morbo, come per uscire da una guerra c’è bisogno di entrambi: sia della Resistenza al nemico che del cessate il fuoco. E c’è anche un bisogno disperato di non perdere il senso della misura.

M olti oggi chiedono all’Italia, in modo addirittura imperioso, di adottare la sanzione delle sanzioni, “il distacco totale dal gas di Mosca”. Ma dove finisce una sanzione, e dove inizia un atto autolesionista? Siamo sicuri che tagliare il 45 per cento del nostro fabbisogno energetico dalla mattina alla sera sia davvero la scelta più opportuna? Non qualche pericoloso estremista, ma uomini come Carlo Calenda e il presidente dell’autorità sull’energia, Stefano Besseghini, ci hanno spiegato che se il taglio fosse netto e immediato, l’Italia - priva addirittura dei necessari accantonamenti delle scorte per l’inverno - avrebbe risorse per sole dieci settimane. Subito dopo questo periodo, dunque, saremmo costretti a tornare ai blackout in stile anni Settanta. Mi pare indubbio che questo esito sarebbe un atto suicida, per un Paese che è appena uscito dalla pandemia. Curiosamente la stessa opinione la aveva anche il ministro della transizione energetica, Cingolani, all’inizio di questa crisi: «Non possiamo interrompere quelle forniture di gas - diceva solo trenta giorni fa - in meno di tre anni». Il motivo è semplice: dovremmo sostituire, dalla mattina alla sera, 29 miliardi di metri cubi di gas, e tutti gli esperti sono d’accordo nel dire che sarebbe già un miracolo (con l’aumento delle forniture, e con l’acquisto di due rigassificatori galleggianti) se riuscissimo a rimpiazzare 10 o 15 miliardi di tonnellate (in non meno di 20 mesi). Quindi perché Cingolani adesso cambia idea? Mistero. Dice ancora Calenda, e non si può che sottoscrivere il suo allarme: «Già in questo momento ci sono 40 miliardi di costi aggiuntivi, che l’Italia sta pagando, dovuti alla guerra: sono l’equivalente di una intera manovra finanziaria».

Oggi, dunque, bisogna pensare a come si può imporre un cessate il fuoco a Putin, non immaginare come si prolunga un conflitto. Bisogna pensare a come sostenere l’industria e i produttori, non a come staccare la corrente alle linee produttive. Bisogna garantire le reti con cui gli studenti fanno didattica a distanza e i lavoratori in smart working producono, non limitarsi a dire: abbassate la temperatura dei termosifoni e dei condizionatori. Perché l’Italia del terzo millennio non è il Paese agricolo del Novecento.

Siamo una nazione trasformatrice, che siccome è priva di materie prime, adesso deve comprare acciaio, legno, petrolio, bitume, mais e grano a prezzi da borsa nera bellica. L’efficacia di una sanzione, che deve colpire un nemico, finisce dove inizia la letalità del kamikaze, che colpisce un amico, o se stesso. La lezione del 25 aprile, come ci ha ricordato Mattarella, è esattamente l’opposto: battere il nemico per ricostruire dalle macerie.

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