C i sono molti segnali che inducono a ritenere che ancora oggi, dopo oltre un secolo e mezzo, sia rimasta aperta ed irrisolta, nel nostro Paese, come frattura di diversità e di disuguaglianze sociali ed economiche, la “questione meridionale”. Opinione che troverebbe conferma nel forte divario tuttora esistente fra il Centronord ed il Sud, ritornato ad essere quello precedente al 1950, anno di istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, che ne consentì, per circa un ventennio attraverso i suoi interventi, attenuazioni ed avvicinamenti nei valori del Pil e dei redditi pro capite.

Eppure, del permanere di una questione meridionale si parla e si discute sempre meno o per niente, quasi che sia da ritenersi parte della nostra geografia fisica, come la Sila, le Madonie o l’Ogliastra. Tra l’altro, se ne è perso, o del tutto dimenticato, il contenuto culturalpolitico che in passato ne aveva tracciato la strada per promuoverne una decisa palingenesi sociale, poiché, da una trentina d’anni a questa parte, ci si va sempre più limitando verso un assistenzialismo fine a sé stesso, con uno Stato nei panni di grande elemosiniere, e con gli investimenti sempre più concentrati sul Centronord.

S econdo Svimez, questi investimenti sono pari al 70 cento degli interventi statali, ottenuti anche per le esuberanti intemperanze di una prepotente presenza nordista.

D’altra parte, si sono del tutto dimenticate le pressanti istanze politiche di Giustino Fortunato, di Manlio Rossi-Doria o di Francesco Compagna, tese a richiedere un’equità di trattamento con il Centronord, rimasto lungamente diseguale. Ed ora, di quegli autorevoli meridionalisti, non se ne intravvedono in giro gli eredi ed i seguaci. Certo, da allora molta acqua è passata sotto i ponti dei nostri fiumi e la situazione complessiva delle regioni meridionali non è più la stessa, per cui occorrerebbe aggiornarne gli obiettivi dell’intervento strategico. Ma dei loro insegnamenti qualcosa è rimasta sempre attuale, come la predisposizione alle nuove responsabilità di un ceto dirigente preparato e competente. Sosteneva infatti Fortunato che «non basta dotare il Meridione e le Isole di efficaci strumenti per lo sviluppo: occorre che ci siano persone che li sappiano far funzionare e ben utilizzare». Ecco, oggi assai più del passato, la “questione” sta proprio in questo deficit di un adeguato e preparato “capitale umano”, per cui parrebbe che, di fronte all’esistenza di un’inefficacia degli interventi attuati, siano quasi scomparsi, o manchino del tutto, dei meridionalisti illuminati e sapienti. Cioè dei capaci progettisti dello sviluppo che indichino, con competenza e passione, le possibili iniziative per colmare questo storico e penalizzante divario nazionale.

Su quest’argomento, proprio di recente, è intervenuto un documentato saggio di Antonio Sassu, emerito economista del nostro Ateneo oltre che politico di scuola gramsciana, che ha rilevato come «per un troppo lungo periodo la frattura dell’Italia, che mantiene debole il sentimento di unità nazionale, è sempre quella fra Nord e Sud», così da far ritenere che le politiche governative messe in atto non abbiano prodotto effetti positivi «probabilmente perché non sono state individuate le vere cause del divario e gli interventi non sono stati, e tanto meno determinanti, nell’eliminarlo».

Certo è che un Paese come il nostro non può permettersi una così grave frattura, e per chi vive, come noi sardi, in quella parte tra le più svantaggiate, le difficoltà ed i ritardi appaiono ancora più pesanti. Perché andrebbe detto che, all’interno della questione meridionale, sia presente una sottostante e particolare “questione sarda”, rimasta anch’essa tuttora irrisolta. Per ragioni che accomunano l’isola, per tanti aspetti, alle sorti ingrate delle regioni del Sud peninsulare. Ed è proprio per la presenza comune, sempre più determinante, di un’altra “questione” ancor più determinante ed invalidante che potremmo indicare nelle insufficienze del “capitale sociale” disponibile. Cioè nelle tante falle esistenti nella rete virtuale di culture comuni, di interrelazioni e di elementi condivisi, incapaci di creare un ordine sociale ed economico contraddistinto da una generale cooperazione per conseguire il bene comune.

Si è visto infatti come non siano mai sufficienti solo le leggi, siano anche di valenza costituzionale, se non vengano accompagnate dalla volontà degli uomini, dalla disponibilità dell’ambiente sociale e dalle attitudini storiche della popolazione. Ed è nell’impegno per ovviare a questi deficit che si dovrebbe rilanciare la cultura e la passione di un nuovo meridionalismo che dia finalmente all’Italia, ed alla sua gente, una condivisa unità sociale dal Brennero fin giù a Carloforte ed a Pantelleria, per collegarla a quella geografica e politica conquistata con il Risorgimento.

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