I l 22 settembre scorso, a maggioranza, l’assemblea del Cnel ha approvato il parere che suggerisce al governo di non introdurre in Italia il salario minimo. Ritengo sia stato un errore grave, per almeno tre ragioni. La prima è che un organo costituzionale consultivo e propositivo non dovrebbe ricorrere a decisioni di maggioranza. La ricerca di convergenze e compromessi tra posizioni diverse è aspetto costitutivo del Cnel. In questo caso, si è scelto di produrre una forzatura, una torsione politica verso il governo in carica.

C iò costituisce un indebolimento dell’autonomia del Cnel rispetto alla dialettica tra diverse forze politiche e al rapporto tra maggioranza e opposizione. Vi è poi un’altra anomalia procedurale. Sui salari devono discutere e contrattare le parti sociali, non il Cnel, sul cui parere il governo ha chiuso la questione senza alcuna trattativa. Il salario minimo non è mai stato oggetto di discussione o di negoziato tra governo, sindacati e imprese. Aver attribuito al Cnel l’ultima parola è un’altra grave forzatura del governo.

La seconda ragione riguarda il principale argomento usato contro il salario minimo, che in Italia non servirebbe data la diffusione della contrattazione collettiva. C’è una parte di verità, in questa tesi. Oltre mille contratti collettivi coprono pressoché tutto il lavoro dipendente in Italia. Occorre ricordare, però, che due terzi di questi contratti sono stipulati da sindacati gialli e associazioni imprenditoriali di comodo: sono contratti collettivi pensati per un’azione di dumping rispetto ai contratti firmati dalle parti più rappresentative: salari ridotti, diritti falcidiati per ferie, tredicesime e quattordicesime, indennità di malattia, permessi e molto altro.

Eppure, nonostante questi tratti regressivi, sono contratti che le imprese possono applicare, poiché nel nostro Paese non c’è una legge sulla rappresentanza sindacale e sul valore erga omnes dei contratti firmati dalle organizzazioni più rappresentative, come pure la Costituzione prevederebbe. Avviene, quindi, che un lavoratore a cui si applichi un contratto pirata è condannato a bassi salari e a diritti negati, pur essendo “tutelato” – come scelgono di non vedere quanti hanno approvato il parere di maggioranza del Cnel – da un cosiddetto contratto collettivo. Inoltre, circa tre milioni di lavoratori italiani sono fuori dalla tutela dei contratti collettivi e sette milioni (compresi molti lavoratori del pubblico impiego) hanno un contratto nazionale scaduto. È evidente che l’ombrello della presunta copertura della contrattazione collettiva fa acqua da più parti. Se al Cnel non se ne accorgono, c’è un problema.

Infine, la terza ragione. Chi si oppone all’introduzione del salario minimo sostiene che esso ostacolerebbe il pieno dispiegarsi dell’azione contrattuale e che una soglia oraria di retribuzione minima avrebbe l’effetto di portare all’ingiù i salari, deprimendo la naturale spinta alla loro crescita. Questa tesi è smentita dalla realtà. Il salario minimo esiste in 22 dei 27 paesi dell’UE e in 30 dei 38 paesi dell’area Ocse. Non vi è evidenza empirica che in Germania, Francia o Spagna il salario minimo abbia appiattito i salari, depotenziando le capacità della contrattazione collettiva. Al contrario, in tutti i Paesi negli ultimi dieci anni le retribuzioni contrattuali sono cresciute e il salario minimo ha limitato i danni economici e sociali del lavoro povero. In Italia ciò non è avvenuto e oggi abbiamo un enorme problema salariale.

Il salario minimo potrebbe essere una prima risposta. Lo dicono anche cinque consiglieri del Cnel no minati dal Presidente della Repubblica, autorevoli personalità del mondo scientifico e accademico che, insieme ai consiglieri di Cgil e Uil, non hanno votato il parere di maggioranza. Un fatto di cui sarebbe saggio tenere conto.

Segretario Cgil Sardegna

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