T utti sappiamo di Anna Politkovskaja e della sua tremenda fine, ma prima e dopo di lei ne hanno ammazzati altri cinque: brutto vizio quello di voler raccontare ciò che succede. Ebbene, la Novaja Gazeta, premiata due volte con il Nobel per la pace (Mikhail Gorbaciov che l’ha fondata e Dimitrij Muratov che la dirige) ha dato forfait. Quell’eroico giornale ha resistito come ha potuto in questa terribile stagione di guerra, finché ha sospeso le pubblicazioni. Era l’unico modo per evitare la chiusura definitiva dopo l’avvertimento, il secondo, del ministero della Verità.

I n russo si chiama Roskomnadzor, ed è il dicastero che definisce operazione speciale l’invasione in Ucraina, bolla come fake news le notizie sui bombardamenti e costringe centinaia di giornalisti locali e stranieri a lasciare la Russia: troppi i 15 anni di carcere previsti per chi si discosti dalla narrazione ufficiale.

Non c’era strada per aggirare la censura militare: il cartello “no alla guerra” che Marina Ovsyannikova aveva mostrato nel principale tg russo è stato sbianchettato, l’intervista a Zelensky non è mai stata pubblicata. Così l’ultimo giornale indipendente che resisteva era andato in edicola con due pagine bianche, simbolo di tutto quello che non aveva potuto scrivere.

Può sembrare poco ma era tanto, e adesso pure questo è finito. In Russia c’è solo il racconto dei media ufficiali.

Pensiamoci tutte le volte che attacchiamo la nostra stampa: avrà tanti difetti ma, per dirla con Draghi, qui si vive meglio. Altrimenti l’ambasciatore russo non avrebbe denunciato un quotidiano italiano per le notizie riportate in prima pagina da quel grande inviato di guerra che è Domenico Quirico. Ed è proprio qui la grande contraddizione, una tra le tante, degli attuali tempi sempre più bui: dalle nostre parti ci si accapiglia sui contenuti dei programmi televisivi, sulle diverse posizioni, sull’opportunità di dar spazio a ospiti più o meno competenti e qualificati, e non pensiamo che a poche ore d’aereo è addirittura inimmaginabile perché il taglio vien fatto alla radice. Solo per questo, forse, dovremmo trattare con molta cura, come si fa con i beni più preziosi, la nostra libertà di espressione, garantita dalla Costituzione, che ci consente di parlare, perfino a sproposito. Invece siamo talmente impegnati a biasimare, rilevare tutto quello che non va, suggerire cosa sia meglio dire e non dire, che non sottolineiamo mai abbastanza il grande, importante, difficilissimo lavoro dei tanti cronisti sul campo, molti con le garanzie offerte dalla testata per la quale lavorano, altri tutelati solo da se stessi, i cosiddetti free lance, che rischiano come e più degli altri, per farci sapere.

La nostra libertà, quella che ora vediamo negata in Russia, ci porta a distinguere, sottolineare, mettere in dubbio ogni parola che viene riportata da uomini e donne che fanno della cronaca il loro lavoro. Tutto lecito. Ma forse dovremmo avere più rispetto, o magari no, va bene anche così, in democrazia si può. Purché ne siamo consapevoli, ed è ciò che fa la differenza. Da noi i giornalisti non spariscono, come sta succedendo ai cronisti ucraini rapiti dai russi, che al ritorno testimoniano autentiche brutalità: li attirano con l’inganno, mettono un sacco di plastica sulla loro testa, li portano chissà dove, li interrogano, li massacrano, e minacciano pure di sterminare le loro famiglie per sapere nomi, cognomi, contatti.

È la strategia del terrore che si intreccia con missili e bombe, orrore che si aggiunge al dramma delle guerre, di tutte le guerre, anche quelle che ci dimentichiamo perché, lontane, non ci fanno paura.

Noi possiamo scriver e e raccontare e commentare senza rischiare la vita o la galera, dunque abbiamo una responsabilità in più di fronte a chi ci legge e ascolta e segue. Così come ognuno ha la libertà di credere o no a quello che vede, di preferire una fake news a una notizia verificata, di parteggiare per chi la pensa come lui e criticare gli altri. Purché ci ricordiamo che nessun diritto è scontato, nessuna libertà è gratis, e, soprattutto, niente è per sempre.

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