E così un ulteriore elemento sulla certificazione del nostro smarrimento di fronte ai misteri dell’universo è stato aggiunto: l’occhio di JWST (al dettaglio James Webb Space Telescope), è andato in uno spazio-tempo profondo ed ha fatto “vedere” un multiverso (insieme di universi) fra i quali il nostro è forse un francobollo in una collezione Bolaffi ben fornita.

Curiosamente questi concetti, sia pure non alla portata della dimostrazione scientifica, furono variamente intuiti da certi intellettuali visionari. Il nostro grande Giordano Bruno parlava di “De l’Infinito Universo e Mondi”, in pieno scontro con le autorità scientifiche ed ecclesiastiche. Un altro grande, Emanuel Kant, esprimeva in una famosa pagina della “Critica della Ragion Pratica”, vibrante di una specie di lirica filosofica, una sintesi di due concetti immensi per l’animo umano come “due cose riempiono l’animo di ammirazione… il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.

Eppure, le due cose vanno oltre l’ammirazione. La legge morale è un prodotto del nostro cervello che si è sviluppato, si stima, lungo una linea non proprio retta e progressiva in circa due milioni e mezzo di anni.

I l numero galattico di neuroni che l’hanno plasmata è certamente inferiore agli astri dei multiversi prospettati dal telescopio Webb ma è impressionante: cento miliardi di cellule che in uno spazio di 1200 centimetri cubici hanno in media cento mila connessioni per ciascuna di queste cellule con le altre.

Da queste interazioni nascono i nostri universi interni, le astrazioni concettuali, gli innamoramenti per persone o cause più o meno nobili. Si può fare un parallelo tra quel che conosciamo sugli Universi (plurale d’obbligo a questo punto) e ciò che sappiamo del cervello? Prima o poi metteranno insieme in qualche talk-show un illustre astrofisico con un pari grado neuroscienziato. Probabilmente avranno entrambi lo stesso tipo di balbettio scientifico 2.0. Sappiamo sempre meno. Esattamente come una galassia che si espande, le nozioni che arrivano molto più copiose di un tempo ci tolgono il fiato e ci fanno capire l’enormità del compito.

Da parecchi anni ormai si sta cercando di subappaltare agli algoritmi di intelligenza artificiale la soluzione dei problemi più pratici con un certo successo in tecnologie industriali, mediche e, ahimè soprattutto militari. Dobbiamo vigilare perché adesso c’è molta attenzione su costruzioni di chip neuromorfi che cercano di imitare il processamento di dati del nostro cervello.

Siamo ancora lontani dal riprodurre i miliardi di valutazioni parallele del nostro cervello a costo di una lampadina di 20 watt (il computer che fa questo con un ribasso di oltre 10 mila volte ne consuma 250 mila!), ma le tecniche di intelligenza artificiale stanno evolvendo in modo esponenziale. I livelli di astrazione raggiunti dagli algoritmi di reti che si autoistruiscono come ad esempio accade nel cosidetto “deep learning” stanno attingendo sempre più dall’operatività del nostro cervello e rivaleggiano ormai in soluzioni originali su problemi complessi. “Qui auget scientiam auget et dolorem” : la frase grosso modo traducibile con “quando aumenta il sapere si incrementa il dolore” attribuita a Seneca ma presente anche nelle “Ecclesiaste” sembra dare una istantanea della nostra impotenza in materia, ma non stare a questo gioco al rialzo significherebbe inventare la ruota ogni mattina.

Neurologo

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