L ’uomo pecora, personaggio sovrannaturale del romanzo di Murakami “Dance, dance, dance”, avverte il protagonista: “La prossima guerra scoppierà presto, devi stare attento a non farti ammazzare. Ci sarà sicuramente una guerra, ci sono sempre, non possono non esserci, anche quando sembra che non ci siano. Fondamentalmente agli uomini piace ammazzarsi a vicenda e così si ammazzano finché non ne hanno avuto abbastanza. Quando sono stanchi, per un po’ si riposano, poi ricominciano. È una cosa assodata e non cambierà mai. Se a qualcuno non piace, l’unica cosa da fare è fuggirsene in un altro mondo”.

Nei momenti topici della storia, come l’attuale, quando è ancora più difficile avere certezze, possiamo cercare punti di riferimento presso la sovrabbondanza di saggisti, opinionisti, commentatori vari che ci circondano con le perle del proprio ego, oppure rileggere gli artisti veri per comprendere l’animo dell’uomo, i pregiudizi e le utopie, dunque il futuro prevedibile. Dante, Montaigne e Shakespeare hanno detto tutto della condizione umana, ma volendo attualizzare le analisi da Orwell in poi, è l’ipersensibilità anche sociale di scrittori come Houellebecq, Gibson, Harari e Murakami che ci guida a comprendere i rischi insiti nella nostra strada di sviluppo.

È facile e comprensibile cercare rifugio in saggi squisitamente utopistici come “La fine della storia” di Fukuyama – ci abbiamo messo trent’anni a capire che era solo un superficiale desiderio – o l’ultimissimo “Rien na va mais” di François Lenglet, in cui si ipotizza “un novello Rinascimento, appena finito questo periodo di transizione”, sono letture confortanti e in certo modo educative. Aggiungo che ricercando un approccio fideistico, basterebbe allora rifugiarsi nelle “Lezioni Americane” di Calvino e sognare che sia la letteratura a risolvere i problemi del mondo – quanto mi piacerebbe.

In realtà, e con la realtà dobbiamo fare i conti, la guerra in Ucraina sta facendo crollare gli ultimi totem delle nostre certezze e ci sentiamo improvvisamente alienati e destabilizzati (parlo delle persone sensibili, non dei talebani) di fronte allo scoppio della bolla nella quale siamo vissuti per mezzo secolo. Se ci astraiamo per un minuto dalla retorica e dalle parole che ogni giorno ci vengono riversate addosso, possiamo prendere atto del fallimento (culturale, strategico, etico ed economico) dell’Europa in quanto organismo coeso e solidale, incisivo all’interno e verso il mondo, portatore di valori universali e di benessere, capace non solo di elaborare una politica estera autonoma, ma anche di esaltare la propria identità.

Purtroppo, tenuta al guinzaglio dalla finanziarizzazione dell’Occidente, limitata dalla cultura monetaristica e imperialista tedesca, guidata con tragica miopia coloniale in termini di dipendenze non solo energetiche, indebolita dalle spinte centrifughe che si esaltano inevitabilmente nei periodi di crisi, l’UE mostra di sé fratture, diseguaglianze e una crescente evanescenza, mentre all’esterno è stata non solo marginalizzata dalla Nato – questo potrebbe avere comunque una logica bellica – ma esautorata ormai dai tavoli che contano, dalla polarizzazione in atto, dalla grande politica che conforma l’assetto mondiale. Cos’è l’Europa se non la grande sconfitta, la pianta che non germoglia e che avrebbe dovuto essere di pace? Non sappiamo peraltro chi vincerà, non possiamo dar retta ai TG, agli esperti dolenti, agli incasellati, ai portatori di interesse, è difficile farsi un’opinione. Siamo intanto costretti ad augurarci che non sia questa l’ultima guerra e a sfogliare la margherita della prossima (Ucraina ancora, Kosovo, Sahel, Iran o Taiwan?) ancora più nudi di prima, più deboli ed esposti, privi di “un centro di gravità permanente” che Bruxelles, innanzitutto per mancanza di radici comuni, non può assicurare. L’uomo pecora insegna dunque la passività? Non voglio crederlo. In questo turbine di pensiero unico, anche porsi domande è già fare qualcosa, è già cambiare il terreno.

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