U na domanda da porsi: la politica monetaria della Bce (tassi d’interesse crescenti sino all’inizio del 2023 con un aumento totale del 2%, 200 punti base) permetterà di riportare l’inflazione della zona euro (9,1% ad agosto 2022) al 2% entro 18 mesi? Trascurando la comunicazione stranamente confusa (Lagarde dice che le decisioni saranno prese di volta in volta sulla base dei dati in arrivo, e contemporaneamente annuncia gli aumenti dei prossimi mesi), la Bce basa le sue stime su una limitata crescita dei salari e sulla stabilizzazione dei prezzi delle materie prime, fenomeni auspicati e considerati capaci di far diminuire rapidamente l’inflazione.

L’irritualità e la confusione aumentano quando Lagarde sottolinea che “la politica monetaria non può ridurre il prezzo dell’energia ma contribuirà a ridurre le aspettative d’inflazione dando un segnale di serietà”, quando proprio l’inflazione europea dovuta all’energia è eccezionalmente alta, circa il 6%, e soprattutto ha un effetto domino sui costi di produzione e sugli stessi salari pro-capite (aumentati del 4% nell’anno), nutrendo dunque un andamento a spirale. Ancora da notare è la svalutazione dell’euro che ha favorito l’inflazione portando a una crescita del 30% circa dei prezzi d’importazione.

I l segnale di serietà è arrivato debole e in ritardo, ma il peggio è che le politiche di bilancio si dispiegano in maniera non coordinata con la politica monetaria europea, rischiando dunque non di contrastare ma di facilitare l’inflazione.

Per comprendere: negli Stati Uniti l’aumento rapido di 250 punti base dei tassi si è accompagnato a una politica restrittiva del debito pubblico: le due azioni hanno contribuito a ridurre il potere di acquisto delle famiglie e la domanda interna (ma non ancora l’inflazione, a riprova della persistenza del fenomeno e delle componenti di sfiducia nel futuro).

La situazione è peggiore in Europa. Le azioni di sostegno al potere d’acquisto, infatti, messe in atto dai diversi paesi e mirate a compensare l’aumento dei prezzi delle materie prime, sono state fatte a discapito del debito pubblico, quindi con effetto inflattivo. Le politiche di bilancio, seppure giustificabili da un punto di vista socio-politico, contraddicono di fatto gli sforzi della banca centrale.

Torniamo alla domanda iniziale: qual è dunque il profilo probabile della situazione? Che l’aumento dei tassi sino al 2% non basti a modificare l’andamento dell’inflazione (che, occorre ridirlo, dipende fortemente dalla mancanza di energia – è questa la negativa peculiarità dell’Europa), mentre invece tarpi le ali all’economia. E che tassi d’interesse ancora più alti favoriscano una pericolosissima recessione appesantita da un debito pubblico rilevante e dunque con poche leve da giocare. Da questa prospettiva le parole ripetute di Lagarde: “Io non posso ridurre il costo dell’energia. Io non posso convincere le grandi aziende energetiche a ridurre il prezzo del gas. Io non posso riformare il mercato. La politica monetaria non può ridurre il prezzo dell’energia,” assumono un senso sinistro d’impotenza che non può non allarmare i mercati. Sembra un mettere le mani avanti: attenzione, la Bce, più che aumentare i tassi, non può fare. Lo scudo anti-spread? Incerto, non condiviso, comunque anch’esso espansionista.

Le crisi spalancano peraltro opportunità di riflessione e cambiamento: dobbiamo decidere oggi se vogliamo perseguire una strategia di sostanza e non di forma, di solidità economica e non di finanziarizzazione, di progressivo sganciamento dalle dipendenze estere (con riapertura dunque allo stesso nucleare), di giustizia sociale e non burocratizzazione. Dalla nostra strada senza ritorno si esce recuperando i fondamentali e perseguendo l’idea fondante di un’Europa dei popoli basata sul lavoro; in caso contrario i mercati che abbiamo mitizzato e adulato per concederci credito si rivolteranno in una notte da incubo

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