N on più l’uso del linguaggio della forza, ma l’abitudine al dialogo tra gli uomini e le nazioni, accettando i rischi che ne possono derivare; così il giornalista e intellettuale Domenico Sassoli commentava la conclusione del Concilio Vaticano II. L’abbandono di una politica muscolare condizionata da logiche di potenza in favore di forme dialogiche più aperte alle istanze allora emergenti poteva apparire, nella metà degli anni Sessanta, un’azzardata scelta, controproducente al prestigio della Chiesa nel mondo. Tale scelta si sarebbe rivelata corretta.

E ssa garantì la forza per affrontare le sfide del tempo: povertà, crescenti diseguaglianze, rafforzamento degli arsenali nucleari, esasperazione delle tensioni ideologiche. Sfide epocali che il cristianesimo era chiamato ad affrontare e per le quali il Concilio profeticamente formò la Chiesa, insegnandole a vivere la tensione verso l’avvenire. La conclusione dei lavori conciliari non rappresentò un punto di arrivo, ma un’opportuna occasione di ripartenza e rinnovamento. A distanza di decenni quali considerazioni trarre in un contesto sociale che ha subìto significative trasformazioni con inevitabili conseguenze sul vissuto civile?

Mi capita spesso, nel corso delle lezioni con gli studenti, di stimolare un dibattito paritario dal quale emerge spesso la difficoltà nel trovare spazi di dialogo e ascolto, soprattutto in una società percepita come sorda al cambiamento. Al bisogno di interrogarsi dei giovani, tuttavia, non sempre corrisponde l’anelito di una società refrattaria a mettersi in discussione, a raccogliere il guanto di sfida per un impegno concreto capace di guardare oltre la contingenza, di offrire risposte concrete a reali prospettive di crescita, non solo in termini economici, ma soprattutto umani.

Nella millenaria storia della Chiesa i concili sono stati convocati per affrontare sfide complesse, assenti però al momento della convocazione decisa da Giovanni XXIII; nessuna minaccia, infatti, si profilava all’orizzonte per una Chiesa che poteva allora tranquillamente contare su un controllo del laicato e su un potere della gerarchia ecclesiastica pressoché totale, anche grazie al clima politico-ideologico fissato dalla Guerra fredda che aveva determinato, nei paesi dell’Europa occidentale, una predominanza della religione intesa come portatrice di libertà e democrazia, valori contrapposti all’intransigentismo illiberale e ateista sovietico. Cosa spinse dunque il papa a indire un Concilio? la Chiesa aveva acquistato la consapevolezza dell’impossibilità di integrarsi nel mondo moderno se fosse rimasta ancorata al passato: percepì l’urgenza di un aggiornamento inteso come strumento per risvegliare le coscienze e spronare i cristiani a aprirsi alla comprensione del mondo contemporaneo.

Oggi come allora è necessario superare atteggiamenti di diffidenza e mancata fiducia, saper scuotere le coscienze di molti, anche cristiani, dal torpore che li ha pervasi la società del benessere, che ha nascosto, ma non eliminato, povertà, discriminazioni e disuguaglianze, come i dati statistici evidenziano drammaticamente, anche in Sardegna. A tale missione può e deve contribuire la Chiesa, chiamata a vincere resistenze interne, a superare strumentalizzazioni identitarie, offrire a una comunità smarrita spazi di dialogo e collaborazione, fornendo per prima l’esempio concedendo più spazio alla collegialità e partecipazione interna, a garantire quella dignità promessa dai documenti conciliari e non ancora pienamente realizzatasi, a farsi interprete del rinnovamento. La maturazione promossa dal Concilio ha permesso ai laici di stabili re un rapporto paritetico con la gerarchia, ora i tempi sono maturi affinché la Chiesa dia il proprio contributo a una “rinascita” che riscatti dall’individualismo, capace di dar voce a valori evangelici oggi afoni nella società civile. La Chiesa, parafrasando lo scrittore Robert Stevenson, deve tenere per sé le proprie paure e condividere il suo coraggio con gli altri.

Università di Cagliari

© Riproduzione riservata