D iciassette milioni di elettori italiani alle scorse elezioni politiche hanno deciso di non recarsi alle urne o di votare scheda bianca, circa il 40% degli aventi diritto. È di gran lunga il primo partito, ben oltre i 12,3 milioni di voti del centrodestra che complessivamente rappresentano il 26,7% dell’elettorato. La frattura tra rappresentanza politica e “mondi vitali” (scuola, lavoro, mondo giovanile e povertà) è sotto gli occhi di tutti.

L arghe fasce della popolazione, da tempo, hanno deciso di disertare la cabina elettorale, non vanno a votare perché rassegnate o, quando va bene, perché infuriate.

Al contempo sono state marginalizzate le grandi organizzazioni che, fin dal dopoguerra, hanno fatto da intermediarie tra rappresentanti politici ed elettori: associazionismo religioso, sindacati e organismi culturali.

In questo quadro non è poi d’aiuto il ricorso al sistema degli strumenti digitali che rischiano di cristallizzare una “militanza a distanza”, insufficiente ai fini come lo è stata la “didattica a distanza” in tempo di lockdown.

La responsabilità di questa situazione non credo sia da ricondurre alle classi dirigenti dei partiti, che forse sono l’ultimo avamposto della partecipazione, e neppure ai sistemi elettorali che si sono susseguiti negli ultimi vent’anni.

Dentro la crisi della rappresentanza politica e quindi della democrazia del nostro Paese occorre volgere lo sguardo a quelle componenti che progressivamente hanno abdicato al loro ruolo nella società, soprattutto nelle aree deboli e spesso emarginate come la Sardegna. Mi riferisco, in particolare, al ruolo degli intellettuali, la cui diaspora deve allarmare chiunque eserciti una responsabilità pubblica. La Sardegna è ricca di scrittori, accademici e insegnanti, voci autorevoli ma isolate; da troppo tempo si è persa la consapevolezza della loro presenza.

Nel 1956, Antonio Pigliaru, in un clima politico arroventato (ancora non si era placato lo scontro tra Stato e Regione, dopo l’umiliazione subita dal governo centrale che aveva predeterminato la quota di gettito fiscale di spettanza regionale), rilanciando la rivista Ichnusa, aveva chiamato a raccolta gli intellettuali sardi, con un preciso obiettivo: quello di diventare un punto di riferimento per gli studiosi “dell’impegno” e per rimettere la cultura al centro del processo di rinascita dell’Isola. In questo, fu molto condizionato dalla lettura dei saggi di Noberto Bobbio, il filosofo torinese che rivendicò alla cultura “la funzione di guida spirituale della società”.

L’appello agli intellettuali era figlio di una stagione che aveva conosciuto l’urgenza “dell’ora estrema”, con due guerre alle spalle e con una condizione sociale ed economica, quella sarda, drammatica in tutte le sue variabili. Per Pigliaru non era possibile occuparsi di letteratura in Sardegna senza interessarsi al dramma dei pastori e dei contadini, senza andare a indagare il loro tormento, senza mettersi a studiare soluzioni, senza, in una parola, mettersi al servizio della società, con una presenza propositiva e con una visione prospettica in grado di trasmettere fiducia e speranza.

Credo che si tratti di un appello che ritrova oggi tutta la forza dell’attualità, non mancano infatti le emergenze: lavoro, sanità, spopolamento, trasporti, abbandono scolastico, tutela del paesaggio. Gli intellettuali sardi hanno il dovere della presenza, nel senso di rendere un servizio alla propria terra in termini di proposte e di percorsi da offrire alla politica. Perché l’impegno at tivo “alla fine salva la presenza dell’uomo nell’intellettuale” facendolo assurgere a guida morale nella società.

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