S ulla manovra economica del governo, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha confessato che la situazione non è ancora definita e i numeri della NaDef, la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, non sono ancora definitivi. Di certo, la spesa per interessi sul debito pubblico è cresciuta di 14-15 miliardi a causa dell’inflazione e del rialzo dei tassi d’interesse. Sembrava tuttavia, almeno sino a pochi giorni fa, che la decisione del governo di far gravare l’intero costo del superbonus sul 2023 andasse bene.

M a poi l’Eurostat (l’agenzia statistica dell’Europa) ha rimesso in dubbio la classificazione in bilancio dei crediti del Superbonus per il 2024. Il rischio è che molte voci di spesa che si riteneva di poter imputare ai conti del passato tornino invece a pesare per il futuro, riducendo così gli spazi di manovra del governo per i prossimi anni.

A febbraio scorso Eurostat riclassificò i crediti legati al 110% come spesa pubblica, da imputare tutta al primo anno (90 miliardi di euro fino al 2022). Cedibilità e sconto in fattura facevano ritenere che quei crediti sarebbero stati incassati subito e dunque andavano iscritti a deficit negli anni fra il 2020 e il 2022, in cui erano stati creati. Ora però Eurostat si corregge. Vista l’entità dei crediti ancora non goduti dai beneficiari, c’è il rischio che una parte di essi vada persa. Se così fosse, secondo Eurostat, si tornerebbe al vecchio criterio: le minori entrate dovute al superbonus sarebbero da spalmare su tutta la durata della detrazione. In sostanza, andrebbero in parte tolte dai deficit degli anni scorsi e destinate ad alimentare una nuova massa di deficit in più per tutti gli anni di vita dell’attuale governo. Ciò non solo per la quota di crediti incagliati, ma per tutta la massa di oltre cento miliardi di euro di crediti d’imposta generati con i bonus.

Nel suo scambio con Eurostat, l’Istat ha assicurato che il governo interverrà di nuovo. Il problema riguarda, come detto, circa cento miliardi di spesa che verrebbero spostati dai conti sino al 2023 per farli gravare invece sui conti dal 2024 fino al 2027, ipotecando così i calcoli dei futuri deficit proprio ora che stanno per tornare in vigore le vecchie regole di bilancio e le procedure sanzionatorie europee per eccesso di deficit. Ciò restringerebbe i margini di manovra del bilancio per i prossimi anni. Paradossalmente, come scrivono Federico Fubini e Mario Sensini sul Corriere della Sera, «dopo aver scoraggiato in ogni modo la cessione dei crediti, ora per il governo potrebbe diventare urgente far sì che tutti i vecchi crediti fiscali vengano incassati entro il 2023».

Esiste dunque ora una ragione in più per il confronto, già in corso da qualche tempo, fra il ministero dell’Economia e le banche detentrici di crediti d’imposta da bonus per somme fra gli 80 e i 90 miliardi. L’ipotesi al centro del confronto sarebbe quella di uno scambio, su base volontaria, in cui le banche cedono i crediti d’imposta ricevendo dal Tesoro titoli di Stato (Btp) di nuova emissione di valore equivalente. Se mai si facesse, l’operazione non potrebbe smobilizzare somme di crediti molto alte, tuttavia le banche aprirebbero nuovo spazio in bilancio per comprare altri crediti fiscali incagliati e aiutare così a scongiurare lo scenario ventilato da Eurostat.

Ci sono poi anche altri obiettivi che potrebbero essere conseguiti nell’operazione. Tra questi c’è anche quello di facilitare il piano di finanziamento del debito dei prossimi mesi. L’altro obiettivo del governo è quello di scongiurare la tendenza all’aumento del debito pubblico in p roporzione al prodotto interno lordo sul prossimo anno. Se le nuove emissioni di Btp per le banche avvenissero entro il 2023, infatti, esse andrebbero conteggiate sul debito di quest’anno e si sgraverebbe di conseguenza un po’ di quello del 2024.

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