G iorgia Meloni ha vinto le elezioni in modo chiaro. Senza dubbio, è stata lei a vincerle, non una coalizione nella quale i suoi alleati hanno registrato pesanti emorragie di voti. A rigor di logica, questo dovrebbe significare una certa facilità nella composizione della compagine di governo. Ma non è così. Il confronto all’interno della maggioranza sembra teso e, perlomeno a leggere i giornali, pare improbabile che il nuovo premier possa presentarsi presto al Parlamento con una squadra coesa.

Di far tardi però Meloni non se lo può permettere. Gli italiani si aspettano da lei un governo in tempi rapidi e lo stesso si può dire degli osservatori stranieri, presso i quali serpeggiano molti dubbi sul suo progetto politico. Com’è noto, i mercati sopportano tutto tranne l’incertezza. L’obiettivo di Meloni deve essere quello di presentarsi al Colle un giorno dopo l’incarico, con una lista dei ministri all’altezza delle aspettative dei tanti segmenti della società italiana che hanno, in questo momento storico, deciso di scommettere su di lei. Il difficile, si dirà, viene dopo: quando la premier dovrà prendere in mano il timone di un Paese scosso da una crisi energetica i cui morsi si avvertiranno tanto di più nei mesi a venire.

M a anche la composizione del governo non è un gioco facile. Meloni deve usare carota e bastone con i suoi alleati, pensare agli osservatori e alle cancellerie europee, mettersi al fianco persone con le quali pensa di poter condividere decisioni difficili e non sempre popolari. Non c’è nulla di facile, in questo esercizio. Dei retroscena pubblicati dai giornali, con tutta probabilità, c’è da fidarsi fino a un certo punto. I nomi che girano spesso sono stati messi in circolo dai diretti interessati. La autocandidature funzionano un po’ come la calunnia nel Barbiere di Siviglia: un venticello che “nell’orecchie della gente / S’introduce, s’introduce destramente / E le teste ed i cervelli / Fa stordire e fa gonfiar. / Alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia,/ E produce un’esplosione / Come un colpo di cannone”. Se si continua a parlare di Caio per un certo ministero, va a finire che tutti si convinceranno che è un candidato adeguato!

A un certo punto, però, al processo va messo un punto. Meloni è una politica esperta, che esercita una leadership rigorosa sul suo partito. Sa bene che c’è sempre il rischio di finire una trattativa per esaurimento: di soccombere, per non dover più negoziare. Deve evitarlo a tutti i costi.

Purtroppo, c’è un solo modo. Sin d’ora deve esercitare la più radicale delle minacce. Meloni ha, di fatto, nelle mani il potere di scioglimento delle Camere. Formalmente, com’è noto, esso è a disposizione del Presidente della Repubblica. Ma Meloni sa che non c’è una maggioranza possibile a lei alternativa e, soprattutto, che tornare alle urne magari lascerebbe FdI ammaccato ma travolgerebbe i suoi alleati. Chi vorrebbe Forza Italia, sapendo che ha fatto saltare la possibilità di un governo Meloni in nome di un dicastero in più? Quanti voti rimarrebbero alla Lega? Probabilmente, la sinistra apprenderebbe la lezione delle ultime lezioni e, grazie all’alleanza coi Cinque stelle, potrebbe persino rivelarsi competitiva. Soprattutto, però, nel suo campo FdI diventerebbe l’unico erede dell’alleanza del 1994.

Probabilmente Meloni si tiene questo asso nella manica della giacca, in attesa dei primi scontri interni alla maggioranza. Sperava forse di non doverlo mai usare, in ragione dell’idem sentire che unisce se non i politici della destra i loro elettori. Purtroppo, non è impossibile che le tocchi di usarlo ora, specie se gli alleati continuano a chiedere, chiedere, chiedere, forti del contributo marginale che danno alla maggioranza di governo.

In Italia non eleggiamo i premier, ma i loro partiti. Formalmente. In realtà la politica italiana è “leaderistica” al pari di quanto non sia in altri Paesi. La gente non ha votato per “Azione”, ma per Calenda. Non per FdI, ma per Meloni. Persino il corale movimento Cinque stelle, con tutta la sua liturgia di parlamentarie e azioni dal basso filtrate da apposita piattaforma cibernetica, è diventato il partito di un capo, Giuseppe Conte. Non è una cosa né buona né cattiva: è semplicemente così. Nell’epoca della politica e della comunicazione di massa, fra social media e reality show, i leader contano più che non mai. Meloni oggi è la leader uscita vincitrice da queste elezioni. È anche un’esperta politica con grande esperienza parlamentare e, a dispetto delle caricature della stampa, più rispettosa delle opinioni e delle posizioni altrui di molti altri. Dovrà però ricorrere a tutto il suo decisionismo, per tenere in rotta la barca. Deve farlo sin da subito, perché l’imprinting di un governo e di una legislatura ne segna tutto il percorso.

Direttore dell’Istituto

“Bruno Leoni”

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