I n un mondo di social e di appartenenze, veri brodi primordiali secondo la definizione di Arbore e “Quelli della notte”, parliamo di impostori e specificatamente di chi scrive cose inventate spacciandole per vere. Un doveroso passo alla volta: tutto il filone “fiction” della letteratura è fatto appunto di finzione, come dice il nome, cioè di storie e personaggi credibili ma inventati; non c’è dunque in esso nessuna impostura. Oggi, tuttavia, si assiste all’esplosione del genere “autofiction”, in cui l’autore stesso è il protagonista delle vicende di finzione narrate.

S e ci fermiamo a questo punto, niente è fuori dal seminato: io scrivo una vicenda di persone e fatti di fantasia di cui sono io stesso il protagonista (perché no? basta dichiararlo, posso ben immaginare d’essere Superman). Il problema nasce quando l’autofiction diviene invece un’autobiografia falsa, ovvero un racconto in cui non la voce narrante, ma io con nome e cognome, data di nascita e codice fiscale invento situazioni e fatti coinvolgenti me stesso e terze persone, e li spaccio per veri. L’autofiction diviene dunque uno strumento di esposizione di miei desideri o sogni, pericoloso e subdolo in quanto con esso manipolo il mio ignaro lettore secondo i miei intenti.

Il fatto di immaginare cose non vere fa parte della nostra natura ma l’utilizzare questo potere calandolo in una narrazione che non dichiariamo “finzione” ci mette allo stesso livello di chi nei social inventa un fine settimana nel grand hotel di Montecarlo quando invece è rimasto nella pensione Mariuccia di Ostia Lido (con tutto il rispetto – attraversiamo tempi pericolosi, bene sottolinearlo – per i clienti delle pensioni, per Ostia Lido e Mariuccia stessa). “E allora, cosa c’è di male?” interviene furiosa Vongola75. Nota bene per chi non è social: Vongola75 è l’analoga della famosa Casalinga di Voghera dei tempi di Eco. Rispondo: se tutta l’autofiction si esaurisse in termini di vanità e complessi, beh, non staremmo qui a scrivere. In realtà, quello che sta avvenendo è una deriva da una parte verso quello che gli americani chiamano “commercio del dolore”, dall’altra verso una riscrittura falsa della storia attuale.

Per quanto alla prima, non c’è niente che i sensibili animi liberali amino più delle narrazioni dell’altrui sofferenza, e purtroppo il confine tra il vero e il falso non è rigido come in passato. Questa storia non è vera? Ah, beh, ma la nostra società è così malata, razzista, sessista o sessualmente depravata che avrebbe potuto essere vera; e questo basta. Si afferma dunque un’altra bestialità, quella della categoria “emozionalmente vera” perché, se ad esempio la violenza raccontata si dimostra falsa, tuttavia “altri potrebbero averla subita”. Il donare soldi a questi mercanti di sofferenza, di solito per malattie immaginarie, è solo l’ultimo passo della deriva intellettuale in atto. La seconda è ugualmente pervasiva ma più grave. Gli esempi tra gli scrittori non si contano: c’è Margareth Seltzer che ha mentito raccontando di essere una mulatta appartenente a una gang di Los Angeles; L.T. Leroy, un lavoratore transex tossico che era invece Laura Albert, telefonista erotica di mezza età; Herman Rosenblat, di cui ho letto la crudele autofiction “Angel at the fence”, in cui, se pur l’ambientazione nel campo di concentramento di Buchenwald fosse storica, tutta la vicenda della sua sopravvivenza e dell’amore per la bambina che sarebbe diventata sua moglie era invece un falso. Fortuna che il New Yorker, periodico notoriamente liberal, faccia a pezzi tutta la narrazione di Hasan Minhaj, un commediografo americano mussulmano che, con libri, artic oli, interviste e spettacoli teatrali, ha riscritto la storia dopo l’11 Settembre infarcendo la biografia sua e della famiglia con devastanti fatti risultati falsi. L’intento era di descrivere una persecuzione razziale ad ampio spettro. So già cosa dirà Vongola75, io mi arrendo.

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