S erve arremucu, aveva scritto un carraio del mio paese, rimasto impantanato nel fango un giorno di tempesta di neve. Aveva mandato uno degli aiutanti in avanscoperta durante una buriana che spazzava l'animo umano. E quel povero ragazzo, biglietto alla mano, era arrivato fradicio al tzilleri della piazza quando già era buio. «Serbit arremucu» c’era scritto. Serve aiuto. Un aiuto vero. Quel genere di aiuti di effettivo importo umano che permettano alle vicende terrene di tornare più serene e pacifiche.

P erché in fondo il tema dell’esistenza umana, nonostante la retorica e la dialettica fluviale, è riassumibile entro un concetto semplice ed essenziale: la ricerca della felicità. Nostra e di chi vive intorno a noi. No, non scriverò di guerre, se ne parla anche troppo. V’invito invece a fare un passo indietro nei pensieri, più o meno all'età in cui i nonni erano vivi e le nostre esistenze sapevano di romantica innocenza. Levata l’urgenza delle prime impressioni vaghe, dovremmo tutti ricordare l’eccellenza di quelle nostre vite semplicissime. In cui eravamo veramente capaci di grande solidarietà, e la complicità che ne veniva coinvolgeva interi nuclei di persone.

Non ci si inventa niente di nuovo, sappiatelo, nonostante ci recapitino i pacchi sull'uscio alla velocità del vento. I politici nostrani, facendo ricorso a mirabolanti piani, invitano tutti ad essere semplicemente più parchi. A tornare a su Connotu. Alla- troppo- vituperata vita de bidda. Giorni fa sulla rete, un misterioso personaggio, evidentemente saggio, tal Il Giardiniere, aveva proposto con successo di consensi, il ritorno a quei valori senzienti che potevano benissimo riprendere il loro ruolo nella vita pratica. Il fuoco nel camino, l'acqua dalle sorgenti, il formaggio dal pastore, l’orto al posto del giardino. E proprio l’esagerato numero di commenti positivi ha reso partecipi di questa necessità condivisa ovunque nei quattro lati dell'isola. La voglia di riacquistare una prospettiva più umana, una condotta più spartana ma non meno significativa.

Due fenomeni opposti mi hanno indotto a profonde riflessioni. Da una parte il profluvio di opinioni su tutto, a ogni istante, con tale dispendio di argomenti, come se la gente davvero credesse di cambiare il mondo dalla prospettiva del divano. L’altro, più propositivo, era un bel dato demografico. Al mio paese, Sorgono, molti giovani tornano per stabilirsi. Lo fanno dopo lunghe esperienze altrove, fra l'estero, l'Italia e la Sardegna. Sono i nuovi giovani. I quarantenni. Quelli cui la vita è stata stravolta da eventi e scoperte che in altre ere avrebbero avuto bisogno di secoli di adattamento. Ebbene, questa leva di virgulti che ben hanno in mente il mondo e ne hanno saggiata la pasta, tornano per ritrovare un accordo con se stessi, il tempo delle cose, anche il pretesto per scrollarsi di dosso idee troppo americane per essere attuabili con le risorse imponibili di una vita ancora armonica e vagamente bucolica, entro cui le vicende del progresso trovano ancora un contorno idilliaco. Ho poi visto il filmato di un piccolo bambino ovoddese intento a maneggiare il formaggio appena fatto, con la buona arte appresa da un padre premuroso. Un passo indietro speso è un passo avanti. C’è un meraviglioso vocabolo sardo: aguditzia, l’ingordigia, la brama. Quella fama che porta alla fame e trasforma il pane nelle pene dell’inferno. Torniamo a qualcosa, purché sia, scopriremmo d’essere diventati altri rimanendo intatti. Ma più sereni.

Operatore culturale a Londra

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