L a recente serie televisiva dedicata da Netflix a Jeffrey Dahmer, il serial killer cannibale e necrofilo che - tra il 1978 e il 1991 - uccise 17 ragazzi, conservando parti dei loro corpi nel freezer del proprio appartamento di Milwaukee, Stati Uniti, è già tra le più viste di sempre. È il trionfo della morte, cui la pandemia da Covid 19 ci ha abituati con metronomica certezza.

Q uella stessa morte che, dal dopoguerra in poi, sembrava essere diventata un tabù sempre più inespugnabile, oggi fa meno paura: e ha cominciato a suscitare un interesse talvolta morboso. Nel poema epico indiano Mahabharata, al saggio Yudhisthira viene chiesto quale sia la più stupefacente fra tutte le cose della vita. “È l’uomo.” risponde il maestro. Che si sente in dovere di precisare: “Perché vedendo altri morire intorno a sé non pensa mai che morirà”. Del resto, anche il Dalai Lama ha affermato che la consapevolezza della morte è alla base di qualunque percorso spirituale. Celebre è la sua massima dedicata agli uomini dell’Occidente che “vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”.

Rimasto a lungo un argomento semi-proibito e sconveniente, la morte ha cominciato a insinuarsi prepotentemente nelle nostre vite con lo stillicidio quotidiano dei resoconti che annunciavano i decessi legati alla pandemia. È stato così che, pure noi, uomini occidentali del dopoguerra, siamo stati costretti a prenderne consapevolezza. Inizialmente tutto questo ci ha terrorizzati, poi, però, ne siamo rimasti in qualche modo attratti. E, così, la morte è diventato un argomento popolare che garantisce ascolti record alle trasmissioni televisive, diventando moneta corrente. Anzi, valuta pregiata. Ecco: è proprio in questa nuova consuetudine con la morte che vanno ricercate le ragioni dell’esorbitante successo riscosso da una serie televisiva che racconta in dettaglio le gesta di un serial killer, capace di perforare con un trapano il cranio delle sue vittime e di iniettare acido muriatico nel loro cervello per trasformarli in morti viventi. Un assassino talmente spietato da non risparmiare neanche gli adolescenti. Ecco, lui, Jeffrey Dahmer è il nuovo idolo: l’assassino glorificato dai nuovi media, il dispensatore di morte che sbanca il botteghino, diventando protagonista di una fiction fra le più apprezzate e più viste di sempre. Quella che testimoniamo oggi, però, è una forma di morbosità o una grossolana strategia adottata dalla mente per esorcizzare la paura di un tabù che, d’improvviso, ha smesso di essere tale, entrando prepotentemente nelle nostre vite, come una valanga. È vero: agli inizi degli anni Novanta il film “Il silenzio degli innocenti” con Jodie Foster e Anthony Hopkins registrò un analogo successo, raccontando di un serial killer che si cibava delle proprie vittime. Si trattava, però, di una storia inventata, il cui protagonista non esisteva nella realtà. Glorificare Jeffrey Dahmer, invece, significa esaltare le gesta di uno fra gli esseri umani più spietati di sempre. Ed è disturbante che, noi, oggi, ci ritroviamo a essere profondamente attratti da tutto questo.

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