N on vi è dubbio alcuno che il risveglio del turismo, con il riattivarsi dei viaggi e dei soggiorni per le vacanze, sia stato un importante ricostituente per le economie disastrate e debilitate dalla pandemia e dalla guerra russo-ucraina. Fra queste, certamente, vi è quella riguardante la nostra Sardegna, che ha già registrato, in questo 2022, dei confortanti segnali positivi. Da risultare, quindi, come conferma di una vitalità sempre più marcata del settore turistico fra le diverse attività regionali.

Proprio con i quasi sette milioni di arrivi turistici registrati nei porti e aeroporti dell’isola e con il boom di presenze negli esercizi ricettivi, quasi meglio della pre-pandemia, si ha la certezza come il settore sia sempre molto vitale ed attrattivo, e che ad esso debbano essere riservate particolari attenzioni da parte della politica. A cui andrebbe chiesto di voler approfondire i risultati ottenuti anche in chiave macroeconomica, e non solo in chiave quantitativa su arrivi/presenze, perché, attraverso lo studio del moltiplicatore keynesiano della spesa turistica, cioè di quanto speso dai visitatori per l'acquisto di beni e servizi utilizzati per e durante la vacanza, ovvero nel viaggio e nel soggiorno, se ne valutino gli effetti – benefici o meno – sull’economia generale della regione.

E d è proprio da questa osservazione che s’intende partire. Perché diversi studi indicano che su ogni 100 euro speso da un turista per venire in vacanza nell’isola, quasi 40 andrebbero a percettori non isolani (compagnie aeree e marittime, tour operators, aziende di catering alberghiero, ecc, ecc.), lasciando che molta ricchezza vada fuori, oltretirreno, dalla nostra pentola bucata. Riprendendo l’analisi, occorre tener presente che la spesa media d’un turista, per un soggiorno medio di 3,5 giorni, viene stimata per la Sardegna, nell’analisi effettuata dall’Irpet di Firenze sull’incidenza turistica nelle economie delle varie Regioni, in circa 230 euro, con circa il 5 per cento dedicato per l’intrattenimento e la cultura. Andrebbe ricordato che in Campania quel dato varrebbe (su un totale di 300 euro) circa il triplo, e non molto diversamente si registrerebbe in altre regioni come la Liguria e la Toscana. Dati, occorre precisarlo, frutto di integrazioni e di confronti fra diverse rilevazioni statistiche, ma non raccolti sul campo.

Al di là quindi d’ogni possibile incertezza, c’è da doversi impegnare per meglio valutare l’intera attività ricettiva con la sua filiera di servizi e di opportunità collegate. Perché l’economia turistica, proprio per quel moltiplicatore keynesiano prima ricordato, non andrebbe solo considerata fatta di alberghi e residenze ricettive di vario tipo, ma come un’ampia varietà di attività, a monte e a valle del soggiorno finale, che interagiscono, o dovrebbero interagire, con quei terminali ricettivi. E la Sardegna presenterebbe, come sostengono diversi analisti, ampi margini di crescita su questo fronte. Tanto da stimare la possibilità di poter raggiungere un raddoppio del Pil interno generato da quelle presenze turistiche. I fronti individuati sarebbero parecchi, ad iniziare dall’ampliamento dell’offerta, puntando su alcune peculiarità particolari dell’isola, da quelle climatico-ambientali (con la mitezza dell’inverno) ed archeologiche (sia nuragiche che geominerarie) a quelle specialità alimentari e per sportivi (dal golf al padel).

Ora, se il Pil turistico viene valutato per l’isola tra il 7 ed il 9 per cento, occorre tener presente che nel distretto gallurese varrebbe, secondo alcune valutazioni, circa il 20 per cento. C’è dunque molta incertezza sui dati, anche per la mancanza di rilevazioni attente sull’intero settore. Si tratta di una situazione conoscitiva che dovrebbe essere affrontata in chiave scientifica, in modo da poter meglio capire quanto pesi realmente il turismo sul Pil regionale, e quanto oggi incida realmente, o possa meglio incidere domani, il moltiplicatore keynesiano generato da quella spesa turistica.

Ecco, questa parrebbe, in sintesi, l’agenda di lavoro per promuovere e predisporre una politica turistica regionale che abbia come impegno/obiettivo un’integrazione sempre più stretta fra l’attività ricettiva (alberghiera ed extralberghiera) e l’accesso ad un’offerta di prodotti e servizi autoctoni, in modo da poter dare un sostanzioso “più” a quel 7-9 per cento di Pil. Così si riuscirebbe a sfatare definitivamente quella leggenda metropolitana che vorrebbe il turismo come semplice collocatore di lavapiatti e camerieri.

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