I n quello che è considerato l’equivalente biblico in termini di testo di Neuroscienze, edito dal premio Nobel Eric Kandel, il capitolo che parla del linguaggio è forse uno di quelli di minore contenuto scientifico ma in compenso uno dei più affascinanti nel suo aspetto narrativo, quasi affabulatorio. Si legge infatti che il linguaggio umano sarebbe nato centomila anni fa in Africa, una sola volta. Insomma, un Fiat da primo capitolo della Bibbia che di suo, nel Nuovo Testamento, identifica la Parola con Dio nel lirico Prologo del Vangelo di Giovanni.

O vviamente si trovano tra i linguisti ed i neuroscienziati contrastanti versioni di questo evento che ha segnato irreversibilmente il destino della specie umana. In base alle conoscenze paleo-antropologiche, cioè agli studi effettuati su fossili ed artefatti litici, che fanno dedurre la tecnica, l’abilità e la trasmissione di tali abilità con una qualche forma di comunicazione, si pensa ora che la strada che ha portato al linguaggio sia stata tortuosa e misteriosa, forse cominciata con la discesa dagli alberi, l’esplorazione dei grandi spazi e la liberazione degli arti superiori per l’acquisizione della stazione eretta. Successivamente si sarebbe sviluppato il grido di richiamo e vocalizzi che sono andati incontro ad una specie di codifica, secondo il famoso antropologo Leroi-Gourhan.

Tutta questa premessa per entrare nell’argomento che è cruciale nei nostri giorni: il ruolo dell’Intelligenza Artificiale (o Sintetica) nel riprodurre il linguaggio umano. Moltissimi di noi hanno l’esperienza quotidiana dei cosiddetti assistenti vocali, come Alexa o Siri (tutte con voci femminili, riprovevole esempio di maschilismo sintetico!) che ci rispondono sulle condizioni climatiche, il tempo di cottura della pasta o la riproduzione di un brano musicale. Già in questo un essere umano non saprebbe fare di meglio, si direbbe. L’asserzione del famoso scienziato Alan Turing (quello del film “Enigma”) che l’incrementata potenza dei calcolatori, come si chiamavano allora, avrebbe consentito un dialogo tra umani e macchine senza che i primi si accorgessero se dall’altra parte ci fosse un loro simile o una unità sintetica, sembra oggi aver trovato terreno fertile. Ma è proprio cosi’? Decine e decine di migliaia di anni, forse più di un milione hanno portato il linguaggio umano ad uno stadio di integrazione dentro il cervello che è lontanissimo dal poter essere simulato nelle sue sfumature che appunto sono la quintessenza della funzione del linguaggio nella vita quotidiana. Strutture profonde del nostro cervello, i cosiddetti “gangli della base” ed il cervelletto dispensano la coordinazione di comandi motori che sincronizzano i muscoli facciali con lo stato d’animo, mentre aree superiori come le regioni prefrontali colgono i calembour, le disambiguazioni, il momento del cosiddetto “Ah!...ah!” della comprensione fulminea di una frase criptica.

Tutto questo e’ frutto di una procedura che nessuna matematica può sostenere, meno che meno quella basata su algoritmi delle reti neurali nelle versioni nuove e nuovissime (ormai una alla settimana). Dobbiamo convenire però che per la nostra quotidianità sempre più appiattita il rischio di finirla a parlare, o ad innamorarci come nel film “Lei” di una macchina (che in una scena confessava di intrattenere seimila diverse relazioni amorose), non è poi da escludere del tutto. I “bot” intrattenitori sono sempre più convincenti ma gli algoritmi previsionali, che sono alla base dei programmi domanda-risposta, dovrebbero possedere una matematica aliena per avere qualche speranza di tenere botta ai discorsi di mia nipotina di quattro anni.

Neurologo

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