Il nostro Paese gode di un triste primato. È forse l’unico al mondo nel quale il reddito pro capite, nel suo Sud e nel suo Nord, era e resta su traiettorie divergenti. Al momento dell’unificazione, i territori che poi divennero il Regno d’Italia esibivano livelli di benessere molto differenti. Non è sorprendente, dal momento che ciascuno di essi aveva una storia e istituzioni diverse. Ciò che invece è sorprendente è che questo divario non sia andato riducendosi nel corso di centosessant’anni, con l’esclusione di una breve parentesi dopo la seconda guerra mondiale.

Intervenendo al convegno “Verso Sud”, il premier Mario Draghi ha parlato di “pigri pregiudizi” nei quali la nostra prospettiva sulla storia del Mezzogiorno negli ultimi cinquant’anni sarebbe rimasta intrappolata.

Che cosa intendeva? È presto detto. Il governo Draghi nasce e prospera sull’idea che i problemi del Paese si risolvano con gli investimenti del PNRR. Il Sud Italia ha un’esperienza storica di iniezioni di “programmi speciali”, iniezioni di spesa pubblica volte a ridurre le differenze territoriali e a sostenere i territori meno sviluppati. Ce ne saranno sicuramente stati di meglio e di peggio congegnati, ma, globalmente, quale sia stato il loro esito è abbastanza chiaro: se i programmi per promuovere lo sviluppo avessero promosso lo sviluppo, non saremmo qui a discutere di altri programmi per promuovere lo sviluppo.

Einstein diceva che una buona definizione di follia è seguitare a fare la stessa cosa, confidando in un risultato diverso.

L e iniziative che in passato avrebbero dovuto sostenere lo sviluppo meridionale erano finanziate coi quattrini dei contribuenti o coi quattrini dei loro figli (attraverso il debito pubblico). Gli attuali programmi eccezionali dovrebbero essere finanziati, speriamo, dai quattrini dei contribuenti di altri Paesi europei o da quelli dei loro figli (attraverso un nuovo debito europeo).

Il vero problema non è chi paga ma sono i tipi di comportamento che queste spese promuovono. In linea di massima, essi hanno dato corpo, nel Sud del Paese, alla credenza diffusa che la salvezza economica e il benessere possano arrivare solo dallo Stato, e non dall’iniziativa privata. Ciò ha dissuaso dall’attività imprenditoriale anche persone che ne avrebbero avuto i talenti: la propensione al rischio, la creatività. Inoltre, ha consolidato la percezione che i miei destini individuali e quelli della collettività siano cose nettamente distinte. I cittadini meridionali, essendo tutt’altro che stupidi, sanno bene che quei grandi programmi di sviluppo sono sovente meglio incasellabili nella categoria dello spreco di denari pubblici. Ma sanno anche che rappresentano per ciascuno di essi, individualmente, una concreta opportunità di guadagno.

Come si esce da questo circolo vizioso? È improbabile che ciò avvenga continuando a fare la stessa cosa. Il PNRR, i soldi dell’Europa, sarebbero dovuti arrivare con una chiara contropartita in termini di riforme. Per ora, di queste ultime ne abbiamo viste pochine: scarsi passi avanti sulla concorrenza, una riforma fiscale che è poco più di una operazione di maquillage, niente sul funzionamento della pubblica amministrazione. Il Sud è il primo beneficiario dei fondi europei ma non è chiaro perché questa volta le cose debbano andare diversamente: perché, cioè, debba finanziare progetti utili, anziché “opere” e “operette” che si tradurranno non in guadagni ma in costi permanenti per il contribuente.

Al convegno organizzato dalla ministra Carfagna si è parlato, per fortuna, anche di zone economiche speciali, di spazi nei quali le imprese possono godere di una fiscalità agevolata e di una regolazione di favore. Sul piano dell’equità, ci sarebbe qualcosa da ridere: se pensiamo che in una certa area si possa fare a meno di determinate regole, con tutta probabilità esse non sono così essenziali e si dovrebbe poterne fare a meno in tutto il Paese. Pazienza, siamo rassegnati al fatto che i nostri politici pensano di poter fare cose utili solo stabilendo nuovi regimi di eccezione. Se dobbiamo scommettere sul futuro del Sud, dobbiamo scommettere sulla creatività e sulla imprenditorialità dei meridionali.

È uscita in questi giorni una biografia di Leonardo Del Vecchio, mirabilmente recensita sul Corriere da Ferruccio De Bortoli. Il secondo uomo più ricco d’Italia è figlio di un venditore ambulante di frutta e verdura e, quando muore il padre, la madre se la passa talmente male che deve mandare il terzo dei suoi ragazzi, il futuro signor Luxottica, all’orfanotrofio. Questi inizi strepitosamente modesti non gli hanno imped ito di fare la carriera che ha fatto, nella quale ha sempre cercato “di essere il più bravo in quello che facevo”.

Come le persone, anche i territori non necessariamente nascono ricchi ma possono diventarlo. A patto, al pari delle persone, di scommettere sul proprio spirito imprenditoriale e di non cullarsi nell’assistenzialismo.

Direttore dell’Istituto

“Bruno Leoni”

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