I nnanzi alle immagini, tremende, dell’eccidio di Bucha, la posizione umanitaria dovrebbe essere fare il possibile perché si raggiunga al più presto un cessate il fuoco e poi, quanto prima, la guerra finisca. La reazione di Stati Uniti e Unione Europea sembra portarci in tutt’altra direzione. L’espulsione dei diplomatici russi da un Paese è un atto fra i più gravi e seri che un governo possa determinare. Si discute di far uscire la Russia dal Consiglio generale dell'Onu. Si parla di inasprire le sanzioni, isolare ancora di più le banche russe, smettere di comprare petrolio e gas dal Paese di Putin.

I l petrolio viaggia su nave e dunque è relativamente facile sostituire un fornitore con un altro: l’aumento del prezzo della benzina, in tutti i Paesi occidentali, segnala che è in atto proprio questo fenomeno, che si è partiti alla ricerca di greggio proveniente da altri luoghi (non necessariamente meno autoritari della Russia: pensiamo al Venezuela o all’Iran). Il gas al contrario viaggia attraverso un tubo. Nel medio termine, è possibile che nuove infrastrutture consentano alla Russia di vendere ad altri, o a noi di approvvigionarci con facilità altrove. Nel breve, il colpo serio inferto a Putin ha il prezzo di una mazzata altrettanto seria che i Paesi europei si danno da soli.Come ha ricordato Carlo Stagnaro su MilanoFinanza, “l’Ue importa circa 155 miliardi di metri cubi di gas russo l’anno (l’Italia una trentina). L'Oxford Institute for Energy Studies ha stimato che circa 70 sono rimpiazzabili in tempi brevi acquistando il gas da altri fornitori o riprendendo la produzione domestica”. Ma 155 meno 70 fa 85 miliardi di metri cubi: tanto grande è il “buco” che seguirebbe a uno stop all’importazione di gas russo. Si ha l’impressione che in molti credano che una misura di questo tipo metterebbe istantaneamente in ginocchio i russi e che quindi il sacrificio sarebbe temporaneo.

È lecito avere qualche dubbio. Soprattutto perché gli obiettivi dei Paesi occidentali stanno mutando rapidamente, in parte sulla spinta di un’opinione pubblica comprensibilmente oltraggiata dalle immagini che arrivano dall’Ucraina. Il governo americano, che è quello che come sempre sta dando le carte, sembra poco interessato a spingere per una conclusione del conflitto e più determinato invece a forzare un cambio di regime in Russia: a preparare il terreno per un avvicendamento al Cremlino. L’esperienza degli ultimi anni coi tentativi di “regime change”, dall’Iraq alla Libia, non è incoraggiante. Il processo potrebbe essere lungo e non abbiamo nessuna certezza rispetto ai suoi esiti. A dirla tutta, appare improbabile che un Paese ferito nell’orgoglio da una sconfitta militare, impoverito dalle sanzioni e con la cultura politica prevalente in Russia abbandoni un autocrate per abbracciare finalmente la liberaldemocrazia. I nostri esperimenti con il “protezionismo punitivo” (sanzioni ed embargo) non inducono a grande ottimismo. Sappiamo che leader che dispongono sia di un certo consenso sia di risorse di violenza cospicue riescono a trasformarlo in un argomento di propaganda e usarlo per rafforzarsi: è avvenuto con Castro così come con Maduro. In compenso, in questo caso il protezionismo punitivo ha un costo ingente per chi lo propone. Le stime di crescita sono state riviste al ribasso, per tutti i Paesi europei, ed è probabile che verranno ulteriormente limate nelle prossime settimane. L’economia reca ancora i segni della pandemia e dei lockdown. Una recessione, oggi, significa un ulteriore indebolimento delle prospettive, già misere, della generazione che sta entrando ora nel mercato del lavoro e maggiori difficoltà per tutti, a cominciare da lle persone a basso reddito.Ciò che stupisce è che si tratta di una recessione che stiamo fabbricando noi stessi, e con grande entusiasmo. Nell’opinione pubblica serpeggia l’idea che lo “dobbiamo” agli ucraini: come se l’intensità della loro sofferenza dovesse spronarci tutti a una lunga Quaresima, con abbondanza di fioretti. Se ciò servisse a far finire la guerra, potremmo pensare che si tratta di una decisione razionale. Ma se queste scelte non servissero a far mollare la presa a Putin nel breve, e al contrario determinassero sacrifici permanenti per gli europei? Paradossalmente questa voglia di cilicio andrebbe a detrimento anche di quegli ucraini che possiamo, direttamente, aiutare: i profughi che bussano alle nostre frontiere e che a causa della recessione, esattamente come i nostri giovani, faranno fatica a trovarle.

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