I l dibattito che si è sviluppato sul cosiddetto “premierato” sembra dimenticare due dati di fatto. Primo, qualsiasi governo può fare disastri ma in democrazia sarebbe auspicabile che la guida dell'esecutivo coincidesse con gli orientamenti degli elettori. Quando le persone votano, ovunque nel mondo, votano per scegliere chi le governerà. Detto brutalmente: votano per scegliere un capo. Sceglieranno male, per carità, ma un sistema nel quale i cittadini hanno l’impressione che il loro voto non conti nulla è destinato ad avvitarsi in una continua crisi di legittimità.Secondo, i governi tecnici, che scomparirebbero con la riforma auspicata da Giorgia Meloni, esistono solo in Italia. Rappresentano un tentativo di gestire instabilità politica e inconsistenza dei partiti. Ma sono il sintomo di una malattia, non una cura: tant’è che, quando hanno avuto successo nel sanare alcuni elementi patologici del sistema italiano (pensiamo alla riforma delle pensioni, con Dini prima e Monti poi), tale successo è stato precario e oggetto di tentativi di revisione.Non è un caso se di rafforzare il ruolo del primo ministro in Italia si parla, sostanzialmente, dai tempi di Bettino Craxi. Giorgia Meloni non si è inventata un problema. Il guaio è che la soluzione proposta dalla premier è talmente raffazzonata che c’è da sperare sia solo una bandierina alzata per le prossime elezioni europee. L’ultimo Presidente della cosiddetta prima repubblica fu Francesco Cossiga.

C ossiga era “presidenzialista” ma al Colle l’unico azzardo che si permise fu violare il protocollo con le sue “picconate”. La seconda repubblica, per quanto abbia senso quest’espressione, è stata segnata da presidenti avversi all’ipotesi di una riforma in senso presidenziale ma molto interventisti. Da Oscar Luigi Scalfaro a Sergio Mattarella, il Presidente ha interpretato la propria funzione evitando di sciogliere le camere e addirittura agevolando i “ribaltoni”: la formazione cioè di coalizioni incoerenti con le preferenze espresse dagli elettori.Chi si oppone all’idea che il premier possa avere lui il potere di scioglimento, cioè che il Parlamento “vada a casa” se vota contro il leader della coalizione uscita vincente dalle urne, ha un argomento forte. Possono determinarsi condizioni eccezionali che costringono a cercare una maggioranza più ampia o nelle quali sarebbe improvvido tornare a votare perché il premier ha perso la fiducia. Senza pensare al caso più estremo dell’entrata in guerra, limitiamoci a quello, a noi tutti tristemente più familiare, della crisi finanziaria. C’erano buone ragioni per non votare durante la tempesta del debito del 2011.Si capisce quindi la necessità di qualche correttivo. Quello trovato dai consiglieri della premier è pessimo: se il capo del governo “eletto dal popolo” viene sfiduciato, la proposta prevede che si possa pescare un altro premier solo fra gli eletti nella medesima coalizione. I sepolcri imbiancati si sono stracciati le vesti perché ciò esclude i “tecnici”. Il problema è un altro. Di solito il capo del governo è un leader politico. E in un sistema pluripartitico, per quanto consolidata sia la prassi di avere dei cartelli elettori a destra e a sinistra, i leader sono quelli dei diversi partiti. Il premier “eletto dal popolo” sarà verosimilmente il capo del primo partito della coalizione. Se cade, il più naturale candidato a succedergli non è il numero due del primo partito, ma il numero uno del secondo partito. Costui è tecnicamente eletto nella medesima coalizione. Ma questo non significa che in Parlamento non possa prendere i voti di un partito di un’altra coalizione.Quindi, il numero uno del secondo partito, che già tiene sulla corda il capo del primo, perché il suo sostegno al governo è imprescindibile, avrà un’arma potentissima. Lui (o un altro membro del suo partito, eletto dunque nella coalizione vincente) può essere votato premier, se cade quello scelto dagli elettori, anche dagli ex nemici. I ribaltoni non sono affatto scongiurati, al contrario. Il leader del secondo partito ha un potere negoziale straordinario: può creare una maggioranza alternativa, esigendo il prezzo che crede. Più che riforma Meloni, bisognerebbe chiamarla riforma Salvini, o riforma Tajani.Questo è il problema maggiore del “premierato” in salsa meloniana. Purtroppo anche quelle alternative delle quali si discute hanno tutte un qualche vizio. La riforma più lineare sarebbe quella che Meloni aveva “venduto” ai suoi elettori: cioè l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Di cui il centrodestra sembra avere paura, ormai, perché teme di mancare di rispetto al Presidente in carica. Il rispetto per le istituzioni è sempre necessario ma la deferenza non dovrebbe essere il criterio dirimente per le riforme.

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