I l monastero brucia, si alzano le fiamme al cielo, é tempo di cupe vampe. Con questo rogo, adesso, anche la storia del più antico dei monumenti del Donbass, a Svyatogorsk, se ne va in fumo. Mentre la guerra si macchia di una tragedia che con questo incendio è diventata anche simbolica, tuttavia, la politica italiana sembra indecisa su cosa fare, eternamente in bilico sul filo tenue che nel nostro Paese separa il dramma dalla farsa.

Ed ecco cosa accade: abbiamo appena salutato il centesimo giorno di conflitto, non come si celebra una ricorrenza o una data spartiacque, ma con l’inquietudine con cui si registra un rischio, il timore di un nostro possibile stato di assuefazione, l’angoscia oppressiva dell’impotenza che corrode ogni cosa, e che può spingere al disinteresse. E invece le fiamme che divorano la storica chiesa ortodossa di Tutti i Santi, interamente costruita in legno, nel 1526 nella Lavra di Svyatogorsk, nel Donetsk, colpita ieri dai bombardamenti, ci dovrebbe svegliare dal nostro torpore.

Il serpente si morde la coda, il senso dell’assurdo ancora una volta pervade ogni cosa: bombe russe colpiscono una chiesa che appartiene al Patriarcato di Mosca, e questo rogo di simboli si aggiunge ai massacri, alle stragi, alla fiera grottesca delle armi da sperimentare, alla conta infinita delle vittime civili, e della distruzione che ci hanno già sommerso.

Sono tornati fantasmi che pensavamo di aver esorcizzato una volta per sempre nel 1945: sono tornati i carri armati, i fanti, le artiglierie e gli obici, le trincee.

S ono tornate le antiche carte geografiche, quelle delle ambizioni fuori controllo: la grande Russia, la grande Ucraina, la grande Ungheria, la Grande Polonia, tutti vogliono ritornare ad una grandezza che tuttavia non hanno mai conosciuto, in un teatro di guerra che invece è incredibilmente piccolo e pieno di insidie.

Ma insieme a questi fantasmi è tornato tra di noi tutto quello che pensavano di aver consegnato per sempre alla storia, salutando “il secolo breve”. Ed ecco perché ritorna il Novecento, ritornano i nazionalismi in nome dei quali si può uccidere, tornano a ballare tra di noi strane parole. L’ultimo eufemismo, la parola garbata per nascondere una verità feroce, è la cosiddetta “guerra di attrito”. Che poi è solo un modo elegante per spiegarci che, in Ucraina, oggi ci sono più armi degli uomini che servono per utilizzarle. Nel Donbass, nelle settimane scorse, sono stati fotografati gli Fh70, dei pezzi di artiglieria semovente che arrivano dall’Italia, che hanno mezzo secolo di vita, ma che fino a questa guerra non avevano sparato un solo colpo, dal giorno della loro produzione. La “guerra di attrito” è un modo per dire che mentre gli arsenali si danno il cambio, quello che si consuma in modo irreversibile sono gli uomini: gli ucraini hanno finito i loro riservisti, e i russi hanno mandato a casa un capo di stato maggiore che non voleva richiamare al fronte i cinquantenni.

Sembra che in questo momento l’unica cosa che può fermare questa guerra assurda, fatta di città che passano di mano freneticamente, come le colline della prima guerra mondiale, sarà solo la certezza che sui fronti di battaglia non c’è più nulla da conquistare con i rispettivi eserciti.

Per questo non è sbagliato, in linea di principio che Matteo Salvini pensi o immagini di svolgere una missione di pace a Mosca, se é davvero convinto di poterla portare a termine. Ma è di certo paradossale che il leader della Lega possa immaginare di fare questo da solo, senza coordinare la propria azione, informando il governo solo alla fine. Tra le favole del Novecento che non devono tornare, nell’immaginario dei nostri alleati, c’è la leggenda dell’Italia che tratta sempre con due volti, e su due fronti.Non dobbiamo assuefarci mai a questa guerra, anche se dovesse durare per altri cento gior ma non possiamo trasformare questo dramma in una missione da piccolo diplomatico, un esperimento di bricolage buono per i social. Ecco perché ciò che ha fatto più male a Matteo Salvini, in queste ore, non sono state le critiche dei nemici: ma le prese di distanze dei governatori e dei leader del suo stesso partito. Perché il Novecento ci ha ha insegnato anche questo: non esistono guerre che si risolvono con una bacchetta magica.

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