I l diritto penale vede affermarsi una stagione securitaria, disposta al sacrificio della libertà pur di offrire risposte rassicuranti all’incertezza collettiva creata da fenomeni destabilizzanti come terrorismo internazionale, immigrazione clandestina, disastri ambientali, corruzione, reati contro vittime deboli come lavoratori e minori, o indifese per l’età o la fiducia nell’aggressore.

In questo contesto, componenti populiste della politica, della cultura e del giornalismo, all’unisono con alcuni volti della magistratura, gridano al decadimento della civiltà, che avrebbe un tessuto amministrativo e imprenditoriale ormai endemicamente corrotto. Questi slogan indicano la pena, estesa a più fatti possibile, sempre più severa e inflitta senza tentennamenti, come la sola arma per la tutela dei valori condivisi, generando una pressione mediatica volta a richiedere “più sicurezza” al legislatore e al giudice, che troverebbero, così, già pronta una base di consensi per la restrizione delle libertà individuali.

Si rincorrono, così, istanze di innalzamento delle pene (“giro di vite”), e spinte a lasciare alla magistratura mano libera per fare giustizia. L’idea sarebbe che quando si versa in emergenza non si può andare per il sottile: si invoca perciò la “supplenza della magistratura”, vista come più imparziale e affidabile del legislatore, eletto e perciò opportunista.

Deve però essere chiaro a tutti che c’è un prezzo, pesante e già sperimentato in passato.

L a supplenza della magistratura è quella degli anni di Mani pulite: un’epoca, e un parterre di osannati protagonisti, ai quali quasi nessuno, oggi, pensa più di erigere archi trionfali, per la scia di abusi della carcerazione preventiva, suicidi, imputati tremanti al processo come se fossero all’esecuzione. Anche la precedente stagione di supplenza giudiziaria, quella della lotta al terrorismo, ha lasciato la stessa scia di vittime di errori giudiziari, suicidi e morti in carcere, o poco dopo, per la salute e la voglia di vivere ormai devastati. Il prezzo sistematico di queste opzioni, infatti, è l’attenuazione dei diritti dell’individuo, sempre debole quando è imputato, la delegittimazione della difesa, e, così, il maggior rischio di danneggiare innocenti.

È l’epilogo di sempre, ma i predicatori del giro di vite non ce lo ricordano mai, inscenando un’urgenza di “legalità a costo di eccessi” che nasconde il prezzo della scelta. A volte, l’immagine delle vittime di reati gravi, in cui il cittadino può immedesimarsi, viene sfruttata per socializzare le istanze dei familiari di punizione estrema del reo, richiesta sì ai giudici, ma dal tessuto emotivo spesso simile alla vendetta.

E così, quando arriva la giustizia vera, quella realizzata ogni giorno, lontano dai riflettori, dalla miglior magistratura – che inquadra i fatti alla luce del diritto, e non di scopi o “missioni”, e così assolve quando deve assolvere, e quando condanna applica la pena proporzionata, non quella telegenica – i propagandisti del “giro di vite” traggono nuovo argomento per gridare che il sistema non funziona.

Pare evidente, insomma, che il dialogo tra giustizia e società è rotto, e non a senso unico. La società non percepisce più il senso della giustizia, ma anche la giustizia, a forza di vedersi attribuire fini politici o pedagogici che non può avere, smarrisce frequentemente il contatto con la società.

Ne è misura la costante sottoposizione delle normali attività umane al rischio di processo penale. L’amministratore pubblico, l’imprenditore, il professionista, il medico e l’ingegnere, il giornalista, ma anche il cittadino che intende costruirsi casa, non sono più in grado di distinguere il confine – che gli illuministi volevano chiaro ed evidente – tra lecito e reato, perché la magistratura penale, soprattutto le inchieste penali, spesso percorrono una via ormai separata da quella della realtà sociale, e vanno per la loro strada, considerando reato comportamenti che le stesse leggi civili, amministrative, commerciali, urbanistiche, tributarie considerano diritti o libertà, il cui esercizio viene così compresso, o scoraggiato, da una paura di finire accusati che non deriva dalle leggi, ma dalle prassi. Serve riavviare il dialogo, con serietà e pacatezza: è l’allontanamento tra aule di giustizia e realtà il vero rischio di dissoluzione del tessuto sociale, di ridimensionamento delle libertà fondamentali e perdita della serenità individuale e collettiva.

Professore universitario

e avvocato

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