I n un suo racconto autobiografico di qualche anno fa, “Il desiderio di essere come tutti”, lo scrittore Francesco Piccolo raccontava l’incontro con la compagna, in una cena post-elettorale dell’anno di grazia 1994. Le elezioni le aveva, com’è noto, vinte Silvio Berlusconi e gli amici del narratore sentivano galoppare i cavalieri dell’Apocalisse. Ciascuno di loro intuiva come fosse imminente la fine della democrazia italiana e alcuni, sovrapponendo al pubblico il privato, ragionavano su dove potesse condurli la scelta, obbligata, dell’emigrazione.

L a futura compagna di Piccolo agli infausti vaticini replicava con un sereno “E che sarà mai” che era destinato a diventarne il nomignolo, almeno nel romanzo. Era un modo per dire che la vita continua, che il mondo va avanti comunque, anche quando ci siamo convinti del contrario. La persona all’apparenza più superficiale del gruppo era in realtà la più profonda.

È sorprendente come oramai lo schema dell’imminente fine del mondo si ripeta, pressoché ad ogni elezioni, solo che amplificato, perché ormai l’oggetto delle profezie più livide non è l’Italia ma l’Europa. È stato così per le recenti votazioni in Ungheria. Da principio, la riconferma di Victor Orban ci veniva raccontata come semplicemente impossibile. Poi, è diventata una sorta di battaglia delle Termopili: in ballo c’era, se non la nostra civiltà, almeno la sopravvivenza dell’Unione europea. Nello stesso modo ci viene narrato il ballottaggio che attende la Francia questa settimana.

A contendere la presidenza a Emmanuel Macron è di nuovo la candidata del Front national, Marine Le Pen. Per quanto Le Pen abbia incentrato la sua campagna elettorale sui temi economici (senza peraltro scodellare ricette particolarmente avvincenti o persuasive), per quanto abbia usato toni meno roboanti sull’immigrazione, per quanto abbia giurato che non intende uscire dall’euro, Le Pen resta uno spauracchio delle classi dirigenti europee. Il ballottaggio appare dunque come un’altra battaglia della vita: per la Francia, per l’Europa, per la democrazia.

È davvero così? L’esito più probabile è che dalle urne esca vincitore Emmanuel Macron. Lo scandalo che ha investito Le Pen, in una sorta di remake della vicenda Fillon, conta ma forse ancor più conta l’energia che Macron ha messo in questa seconda parte di campagna elettorale.

Ipotizziamo però che invece molti elettori si astengano e il piatto della bilancia penda dalla parte di Marine. Sarebbe davvero la fine del mondo?

Sicuramente il segnale sarebbe forte, per le elites politiche e intellettuali del vecchio continente. Esse sono spesso autoreferenziali, avvitate nel discutere e normare questioni spesso avvertite dai cittadini comuni come lontane. Questi ultimi si sentono sempre meno “in controllo” delle proprie vite, sono spaventati per l’incertezza, non hanno apprezzato il paternalismo dilagante in epoca Covid e, in assenza di migliori santi a cui votarsi, scelgono partiti e leader populisti. Ma di qui a pensare che sia in discussione il futuro dell’Europa ne corre.

L’Unione europea è un groviglio di trattati, come abbiamo appreso dalla Brexit. La stratificazione di disposizioni che la determina ne fa un oggetto poco trasparente, perennemente affetto dal cosiddetto “deficit democratico”, e tuttavia anche più solido di quanto non si lasci intendere.

Le difficoltà dell’uscita inglese sarebbero decuplicate, nel caso a tentare la stessa via fosse un Paese dell’euro come la Francia. Inoltre, le istituzioni europee rappresentano un equilibrio fra interesse nazionale e interesse e obiettivi del “centro” ovvero di Bruxelles. Se “fare passi in avanti”, come spesso si dice, verso una maggiore integrazione è sempre complicato e richiede circostanze straordinarie (Covid) o straordinarie leadership (al momento, assenti), ciò non significa che fare “passi indietro”, smontar cioè il dispositivo comunitario, sia più facile.

I francesi si divideranno fra Macron e Le Pen e ciascuno di noi può ovviamente fare il tifo per l’uno o per l’altro. La drammatizzazione permanente però non fa bene a nessuno. Rischia anzi di esagerare la fragilità delle nostre istituzioni. E rivela una specie di fiducia intermittente nella democrazia: che è il migliore dei sistemi possibili, ma solo fintanto che le persone votano come piace a noi.

Direttore dell’Istituto “Bruno Leoni”

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