Folli o solo abbandonati?
C e ne accorgiamo quando qualcuno afferra un coltello e mena fendenti a caso, come è successo nel supermercato di Assago, un morto e quattro feriti. O quando un rappresentante delle forze dell’ordine appena rientrato dal congedo afferra la pistola d’ordinanza e spara al comandante che, a dispetto delle perizie psichiatriche, dubitava della sua guarigione e lo aveva messo in ferie forzate, come è accaduto ad Asso.
E se un giovane in stato confusionale gira per il centro di Cagliari con forbici e coltelli inevitabilmente ci allarmiamo. Dei primi due sappiamo che erano seguiti dai medici, del terzo – straniero - non conosciamo invece nulla, però la sensazione di impotenza che ci assale davanti a questi episodi è la stessa. Anzi, quando leggiamo che l’autore di una strage era in cura forse è addirittura maggiore, perché capiamo ancora meno. Ci è successo anche qualche mese fa, con il pestaggio mortale di un mendicante da parte di un sofferente psichico affidato alla madre tutrice, lontana 400 chilometri dalla sua vita.
Quando accadono questi fatti cominciamo a guardarci attorno e all’improvviso ci rendiamo conto che situazioni analoghe sono molto più vicine a noi di quello che crediamo. Ed ecco che davanti ai nostri occhi si spalanca un mondo di cui ci occupiamo poco, sappiamo ancora meno e ci importa quasi nulla. È inutile negarlo, ma davanti alla malattia psichica resiste per tanti un senso se non di vergogna comunque di qualcosa che la rende diversa dalle altre patologie, da nascondere, finché si può. Allora non sono mai problemi nostri fino al momento in cui ci toccano, col racconto di un amico, collega, conoscente o le cronache del terrore.
I casi sono tutti diversi ma l’intervista rilasciata a “Vita Bookazine” dalla donna che temeva fosse stato il fratello, e non lo era, a fare il massacro di Assago restituisce uno spaccato di vita tremenda. «Non ricordo nemmeno quando ho iniziato a domandarmi: “Come possiamo aiutarlo?”. Ancora oggi, dopo circa vent’anni, mi pongo lo stesso interrogativo: chi può aiutarlo davvero? A volte mi investe un dolore profondo: la paura di perderlo, perché quel disturbo mentale non va via, fa giri lunghi, magari si affievolisce momentaneamente, ma tanto poi ritorna, magari con più vigore. Comunque non ci lascia essere felici». Queste parole raccontano tutto di chi vive drammi familiari di quel tipo, di chi è immerso in una situazione difficilissima destinata a durare nel tempo: servizi territoriali, psichiatri, psicologi, educatori a disposizione ventiquattro ore al giorno non bastano per un grave disagio acuito dalla consapevolezza di poter fare poco o nulla.
In quell’intervista non si leggono le parole di una persona egoista che pensa solo a se stessa e alla sua vita rovinata dalla malattia del congiunto, al contrario si vede un profondo amore fraterno, e vent’anni di vicissitudini che possiamo solo intuire non lo hanno fiaccato. Arriva così un secco no alla domanda sul trattamento sanitario obbligatorio, «un’esperienza forzata, una forma di cura piena di contraddizioni. Dopo tanti anni di sostegno, in cui mai è stato necessario ricorrere a una forzatura tale, doverlo fare ora credo sarebbe - oltre che un grandissimo dolore per lui (e per noi familiari) - anche un gravissimo fallimento del sistema di cura».Eccolo il punto: il dolore. Del malato e dei familiari. Molti vivono nella paura, alcuni non si sentono tutelati, altri vorrebbero essere ascoltati. Le cure si concentrano sul malato, è ovvio, m a anche le mogli, i mariti, i figli, i genitori diventano pazienti, con un grande bisogno di sostegno. Perché il peso è sulle loro spalle. Non dobbiamo dunque stupirci se si immedesimano davanti a storie come quelle di Assago e Asso: si sentono colpiti perché credono che sarebbe potuto succedere a loro, che potrà succedere anche a loro. Questo pensiero è immanente nella loro testa e nel loro cuore e diventa parola davanti a questi terribili fatti di cronaca.
La lagge Basaglia ha avuto il grandissimo merito di chiudere i manicomi disumanizzanti: l’idea trasformata in realtà della cure territoriali era e resta sacrosanta. Ma forse bisogna fare qualcosa di più. Questa, sì: è una priorità. Cominciamo a parlarne, e non perché costretti dalle brutte notizie di cronaca.