P erché l’Europa è diventata così dipendente dalla Russia per l’energia? E come mai a coloro che per anni hanno alimentato l’interscambio non è mai venuto il sospetto di avere infilato la testa nella bocca del leone? Se lo è chiesto, fra i tanti, Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. «Avere buoni rapporti con un vicino così ingombrante era rassicurante per l’Europa occidentale», ma c’era anche la decisiva convenienza sulla attrattività degli affari, che erano davvero buoni, soprattutto per il basso prezzo del petrolio e del gas.

Per contro, la Russia era a sua volta un appetibile mercato per le merci occidentali. Tuttavia, non era solo una questione d’interessi economici, perché questi di solito sono condizionati dal clima politico e culturale prevalente. Quel clima spinge gli interessi di una nazione in una direzione o in un’altra, incentiva o disincentiva certi investimenti, favorisce certi mercati e rende più difficoltoso trattare affari con altri.

Poi c’è l’illusione di cui spesso sono vittime le società aperte quando trattano con le autocrazie. È un’idea antica, presente in Occidente fin da quando Montesquieu nel Settecento scrisse che il commercio ingentilisce i costumi, quella secondo cui l’interscambio economico e l’interdipendenza che ne consegue possono favorire e mantenere la pace. Un’idea corretta, scrive Panebianco, ma che diventa sbagliata se viene estremizzata, se ci porta a pensare «che sia sufficiente un’elevata interdipendenza economica perché i problemi politici e geopolitici scompaiano».

L ’errore consiste nel credere che i rapporti che le società aperte e democratiche intrattengono con una potenza autocratica abbiano la stessa valenza e siano trattati allo stesso modo di quelli intrattenuti tra di loro. Invece non è andata proprio così, e che gli eventi potessero prendere una brutta piega era chiaro agli osservatori più attenti dei regimi autocratici già da molto tempo. Per lo meno dall’attacco e dalla conseguente occupazione della Georgia del 2008 e ancora più palesemente dall’invasione e conseguente annessione della Crimea del 2014, e infine dall’avvio della secessione nel Donbass degli ultimi mesi. Per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale una grande potenza ha violato la regola tacita secondo cui «la pace in Europa richiede che i cambiamenti di confine siano sempre decisi consensualmente».

Inoltre, poco alla volta, Putin costruì un sistema autocratico personale. Ma in Occidente non ci fu nessun allarmismo, non si tenne conto che il suo potere autocratico avrebbe condizionato le relazioni esterne della Russia, rendendo la sua politica estera sempre più aggressiva nei confronti dell’Occidente.

Che fare ora, in particolare per il problema delle regolari forniture di energia? Un ripensamento generale dell’intera strategia di approvvigionamento è inevitabile. Per il governo, non senza una motivata ragione, anche dopo il recente accordo sul gas dell’Algeria, è il momento di diversificare gli approvvigionamenti di gas e petrolio. Dovremo approvare, entro giugno, progetti su solare ed eolico per 60 Gigawatt: novanta miliardi di investimenti, 80 mila posti di lavoro. Ce la facciamo? Il problema in Sardegna, candidata ad accogliere almeno una parte degli impianti, ci tocca da vicino. Un’opposizione a prescindere rischierebbe di essere perdente? Forse è meglio ragionare sugli aspetti politici, tecnici ed economici dei progetti che vengono presentati, ed avere il coinvolgimento della Regione, obbligatorio per legge, come ha ribadito la sentenza del Consiglio di Stato dello scorso 4 aprile.

Infine, occorre avere le garanzie necessarie di ridurre al minimo l’impatto ambientale su flora e fauna marina. Come ha già scritto con forza questo giornale, non si tratta di demonizzare le fonti rinnovabili tout court, di cui sarà difficile poter fare a meno, ma certamente di respingere le iniziative progettate solo per fare facili guadagni a scapito dei sardi, del loro territorio o del loro mare.

Università di Cagliari

© Riproduzione riservata