L ’invecchiamento demografico, cioè la diminuzione della popolazione in età lavorativa, non colpisce in maniera indifferenziata il pianeta. In Africa, India Medio Oriente e Sud-Est asiatico si porranno forse il problema in futuro, mentre soprattutto l’Europa (ma anche Giappone e Corea) si trova sbilanciata da una crisi dettata dalle conseguenze negative dell’invecchiamento, che indeboliscono il quadro economico. La prima conseguenza discende dal fatto che la diminuzione totale della popolazione europea (-0,1% l’anno) è inferiore al calo della popolazione in età lavorativa, circa -0,3% l’anno.

E ciò in ragione dell’allungamento della vita media. Sembrano percentuali risibili, ma in realtà la diminuzione del reddito pro-capite dello 0,2% l’anno penalizza la crescita e le relative entrate fiscali, e, tenuto conto del fabbisogno di spesa pubblica relativo alla dimensione totale della popolazione, porta a una politica budgettaria sempre più restrittiva e a un appesantimento del debito pubblico.

La seconda conseguenza riguarda la diminuzione di produttività: i lavoratori anziani sono comunque meno produttivi dei lavoratori giovani e meno adattabili alle nuove tecnologie, e in maniera crescente nel tempo. Ciò porta alla terza conseguenza: il rallentamento della potenzialità economica e del tasso di crescita nel lungo termine. Nella zona Euro la popolazione in età lavorativa diminuisce dello 0,3% l’anno e il tasso di occupazione aumenta dello 0,7% l’anno: la crescita potenziale dello 0,4% l’anno è dunque ben inferiore a quanto ottenuto in passato (da 1 a 1,3%) e lontana dalle attuali previsioni di medio periodo.

Una quarta conseguenza deriva dalla perdita di attrattività: gli investitori prediligono le regioni e i Paesi con una crescita sostenuta rispetto a quelli con una crescita debole e una produttività in calo, e non vale nessun appello alla solidarietà o all’amore di patria – come ben si vede guardando ad esempio i dati della Sardegna. La quinta conseguenza è lo svilupparsi di una crisi immobiliare. Man mano che diminuisce la popolazione in età lavorativa e aumenta quella dei pensionati, i giovani potenziali acquisitori d’abitazioni saranno (sono) meno numerosi dei venditori: l’eccesso d’offerta determina un calo dei prezzi dell’immobiliare, una perdita patrimoniale.

Un’ulteriore grave conseguenza è in termini di (in)giustizia. Le crisi economiche non sono mai piatte, un mal comune mezzo gaudio, ma colpiscono in maniera maggiore le fasce più disagiate e le regioni più deboli. Si crea pertanto una situazione d’ingiustizia sociale che si alimenta, in un circolo vizioso, con la crisi economica. Se non fossimo quotidianamente confusi da una distrazione di massa condita da non-fatti riguardanti persone e situazioni marginali, ci accorgeremmo ad esempio di quanto stia avvenendo in Sardegna e di quali differenze emergano tra le varie zone. La non rilevanza data al rapporto Crenos sulla situazione sarda appare infatti inconcepibile, essendo l’analisi la più cruda degli ultimi anni, per certi versi devastante, tuttavia tenuta nascosta sotto le pieghe delle tattiche politiche e delle emotività social d’ogni giorno.

Mi limito a ricordare il primato negativo della Sardegna per la prima infanzia (solamente 13 su 100 bambini sardi tra 0 e 2 anni utilizzano servizi ad hoc), e il non casuale calo demografico (la Sardegna ha il primato della più bassa natalità nell’UE, negli ultimi 10 anni crollata del 38,2%, peggiorando costantemente i dati di mortalità) e il contemporaneo invecchiamento della popolazione (242 anziani ogni 100 giovani).

Si confrontino i dati del Trentino Alto Adige, ad esempio, per comprendere che se due te rzi della Sardegna sono in condizioni quasi feudali, senza servizi, lavoro e speranze, non è colpa della fatalità ma di una politica che continua a fallire sistematicamente ed estesamente.

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