C hi s’aspettava parole da giorno del giudizio è rimasto spiazzato. Nessuna guerra globale, niente mobilitazione generale, né minacce nucleari. Toni insolitamente cauti quelli usati ieri da Putin durante la parata nell’immensa Piazza Rossa a Mosca. Agli occhi del mondo e degli undicimila militari schierati per celebrare la vittoria sovietica contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale è apparso un capo del Cremlino visibilmente stanco, persino un po’ dimesso. E nella retorica ufficiale ha fatto capolino, per la prima volta, l’ammissione delle perdite russe.

C ’è chi dice – non senza ragione – che questa volta occorre dar peso alle parole non dette più che a quelle pronunciate. Proviamo a farlo. Putin ha tenuto un discorso che a molti analisti è sembrato più che altro rivolto ad uso interno. Nella sua orazione il nuovo Zar, senza particolare enfasi trionfalistica, ha stabilito un parallelo fra gli eroi di Stalingrado e i combattenti di oggi nel Donbass, ribadendo l’inevitabilità dell’ “operazione militare speciale” scatenata il 24 febbraio. Per lui la Nato e l’Occidente hanno ignorato ogni esortazione a «creare un sistema di sicurezza equo e paritario, un sistema di vitale necessità per tutta la comunità mondiale». Anzi, per Putin la Nato era già pronta a invadere la Crimea e attaccare il Donbass. Tesi infondata ma comunque già sentita in queste drammatiche settimane di selvaggia aggressione al popolo ucraino. Poi un attacco diretto agli Stati Uniti che avrebbero cercato di umiliare non solo la Russia ma anche i propri «Paesi satellite», cioè l’Europa, che Putin continua a tenere sotto scacco con l’unica, vera arma a disposizione: il ricatto energetico.

Le omissioni sono più interessanti. Putin non ha fatto cenno alle enormi difficoltà che la fanteria russa sta affrontando su tutto il fronte orientale ucraino. Le perdite si sono moltiplicate, così come le voci di forti dissidi all’interno della cerchia più ristretta dei suoi fedeli al Cremlino. Domanda: dov’è oggi la vittoria per Putin? Dà l’impressione – ed è questa la vera novità del 9 maggio – di una certa stanchezza morale. Si è infilato in una guerra che non può perdere ma che forse non è più tanto convinto di voler esasperare.

La storica giornata di ieri ci consegna, contemporaneamente, un pericolo e un’opportunità. Il pericolo è che gli Stati Uniti, soci di maggioranza della Nato, colgano in maniera distorta questo segnale e premano per un inasprimento di toni per accelerare quella che Mario Sechi ha giustamente definito “una guerra per procura”. Mario Draghi, che nei prossimi giorni sarà a Washington, dovrebbe invece mediare con Biden l’opportunità di aprire una strada negoziale più convinta. L’opportunità, infatti, è quella di trattare sull’autonomia del Donbass e della Crimea (peraltro già annessa nel 2014 da Mosca)e ascoltare l’appello di Zelensky più che le minacce di Stoltenberg. Per la prima volta, dopo 75 di giorni, sembrerebbe essersi aperto un piccolo spiraglio verso la pace. Forse è un’impressione sbagliata, magari un’illusione, ma vale la pena di prenderla in considerazione.

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