U na ministra presenta un libro e un gruppo di attivisti contesta quello che l’esponente politica dice, scrive, fa. Cori e urla. Lei invita i contestatori a discutere sul palco, e lo stesso fa il direttore della fiera letteraria, ma ottengono entrambi un netto rifiuto. Il clima e i toni sono tali che si interrompe tutto. Dando il via al resto: in un nanosecondo parte l’ennesima polemica su chi doveva fare cosa e come, con il solito tifo delle curve contrapposte allo stadio. Arriva pure una lunga serie di denunce.

P er chi non c’era, e ha visto solo parti di video e letto le cronache, sembrano eccessive. Si vedrà.

Quanto accaduto serve però ad alimentare un dibattito che investe la cultura ma non solo, dal momento che si intreccia inevitabilmente con la politica.

La domanda è: perché? Perché da giorni si discute di un fatto - la contestazione - che dovrebbe essere considerato assolutamente normale? Uno ha diritto di dire la sua, l’altro di mostrare il proprio dissenso. E non vale neanche dire “se ti invito a discutere devi farlo”, perché si può decidere di protestare senza dialogare. In democrazia funziona così. C’è un diritto, non un obbligo di parola. Il limite è semmai un altro, e dovrebbe (il condizionale non è casuale) essere dirimente: la contestazione non deve togliere la parola. Nel caso specifico, non deve impedire la presentazione del libro. Il confine tra dissenso e violenza è qui.

Facile? Non tanto. A dire il vero non è innanzitutto chiaro se sia stata tolta la parola a Eugenia Roccella, ministra alla Famiglia, Natalità e Pari opportunità, già nel mirino per le sue posizioni anti abortiste, oppure se abbia deciso lei di lasciare il palco vista la platea non propriamente amica, o se ancora siano state le forze dell’ordine a suggerirle di andare via. Comunque sia i cori delle attiviste di Non una di meno, del coordinamento Torino pride, dei giovani di Extincion rebellion e dei genitori delle Famiglie arcobaleno hanno di fatto interrotto la presentazione di “Una famiglia radicale”. È violenza? Nella risposta a questa domanda c’è la chiave di lettura di quanto è successo alcuni giorni fa al Salone internazionale del libro di Torino, episodio che ha messo in secondo piano il fatto che in quattro giorni ha registrato la bellezza di 250.000 visitatori.

Al netto del successivo attacco di una deputata al direttore del Salone Nicola Lagioia, al grido di “vergogna” per aver lasciato il palco dopo il no dei contestatori al dialogo, questa vicenda riflette il periodo storico in cui viviamo: non siamo in grado di valutare una protesta senza lanciarci reciprocamente l’accusa di fascismo, con il rischio di non distinguere più nulla. Se tutto è fascismo, niente è fascismo, ed è chiaro chi vince e chi perde. Il problema è il diritto di parola, garantito dall’articolo 21 della Costituzione, a tutti, nessuno escluso. Diritto di parola, e di critica.

Dunque: la ministra ha tutto il diritto di presentare il suo libro e rispondere alle domande come meglio crede, anche a proposito dei ginecologi obiettori di coscienza che non praticano l’aborto negli ospedali, sostenendo che non mettono in discussione il diritto garantito dalla legge. Ma anche gli attivisti hanno tutto il diritto di manifestare il loro dissenso e rivendicare le loro idee su questo punto, sulle adozioni delle coppie omogenitoriali e sulla maternità per conto terzi.

Chi ha ragione? L’unica certezza è il limite che non può essere superato: la violenza. E bisognerà vedere se c’è stata davvero, visto che sono state denunciate 29 persone: se hanno minacciato e aggredito sono andate oltre la manifestazione del dissenso. Ma se la contestazione, pur bloccando la presentazione, quindi togliendo la parola alla ministra, dunque negando un suo diritto, è stata solo urla e i cori, l’azione giuridica – a differenza della polemica - non ha ragion d’essere. A meno di voler mettere in discussione la possibilità di esprimere il dissenso. Anche nei confronti di un ministro della Repubblica.

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