L a rivolta dei seguaci di Bolsonaro in Brasile è stata immediatamente avvicinata ai fatti del 6 gennaio 2021, quando alcuni “trumpiani” presero d’assalto il Campidoglio. Il paragone non è scontato, perché la democrazia americana dovrebbe, sulla carta, essere molto più solida di quella brasiliana. Ma c’è sempre di mezzo un’elezione contestata e un perdente che finché ha potuto ne ha rifiutato l’esito.

In una recente intervista con “El Mundo”, Carlos Granés, attento osservatore di quello che avviene in America Latina, osserva come i caudillos tendano sempre a cambiare le regole del gioco, per evitare la possibilità di un pacifico avvicendamento alla guida del loro Paese. Il predecessore dei populisti contemporanei, spiega Granés, è Peron: che seppe “democratizzare l’autoritarismo”, vincendo libere elezioni ma poi erodendo le fondamenta delle istituzioni democratiche, per così dire, al loro interno, lasciando alla fine solo la forma.

Se oggi temiamo questo possa avvenire non solo a Brasilia o Lima ma anche a Washington o a Londra, cioè nelle più antiche democrazie del mondo, è perché negli ultimi anni lo scontro politico ha seguito un po’ dappertutto dinamiche “latinoamericane”.

S i è cioè fortemente polarizzato, con una lotta politica sempre più generosa di colpi bassi. Questa polarizzazione non si innesta su visioni ideologiche radicalmente diverse. Che lo Stato debba fare sempre di più, in società complesse come le nostre, è una sorta di luogo comune, che unisce destra e sinistra. L’oggetto del contendere è chi debba gestire questo Stato esondante. Ci sono forze politiche che provano a rinsaldare la fiducia nelle élite attuali, altre che sostengono che esse siano sempre più autoreferenziali e sorde alle esigenze delle persone comuni.

Di per sé non sono argomenti nuovi. Tradizionalmente, chi è “fuori” da un sistema e preme per entrarci sostiene che chi è “dentro” è corrotto e incapace d'interpretare i tempi. C’è però qualcosa che è diverso che in passato. Un conto è scontrarsi su proposte e idee, ma a partire da alcuni dati di fatto, di cui pure si può dare una lettura molto diversa ma che non si ignorano. Un conto invece è trasformare lo scontro politico in una battaglia fra “narrazioni” diverse, sostanzialmente slegate da qualsiasi racconto comune di eventi ed elementi di fatto. Scompare, così, non solo il terreno sul quale è possibile il compromesso: ma proprio quello su cui può darsi un confronto. La realtà diventa poco meno di quello che non crediamo sia, e non siamo mai chiamati a spiegare, dati alla mano, perché pensiamo sia fatta in un modo o in un altro.

Post-verità e fake news sono temi di cui si parla da tempo. La consapevolezza dei problemi non ci ha però consentito di risolverli. Forse perché il ricorso a questa “realtà virtuale” contraddistingue le élite quanto i populisti, i difensori dello status quo quanto i ribelli. E invece noi tendiamo a ricondurla solo a questi ultimi.

Un esempio. Ci sono senz’altro ottime ragioni, che riguardano l’equilibrio fra le potenze e gli interessi geopolitici dell’Occidente, per difendere l’Ucraina dall’invasione russa. È una cosa un po’ diversa, però, raccontare il governo ucraino, che nel 2019 era il 126mo Paese al mondo per corruzione percepita secondo Transparency e il 147mo Paese al mondo nell’indice della libertà economica (che considera anche e soprattutto le istituzioni dello stato di diritto) della Heritage Foundation, come una costola dell’Occidente. Speriamo da questo conflitto possa emergere un’Ucraina con istituzioni migliori e più solide.

Non troppo diversamente, è curioso che nel denunciare, giustamente, i draconiani lockdown cinesi ci si dimentichi che abbiamo scelto, purtroppo, strategie di contrasto alla pandemia non dissimili in molti Paesi europei. La sfida della democrazia negli anni a venire è rimettere a fuoco fatti e realtà, discutere anche nel modo più aspro, ma a partire da una base comune. Per ora invece quella fra populisti ed élite è stata una rincorsa alla propaganda. Il che ovviamente non legittima l’assalto alle istituzioni parlamentari. Ma purtroppo fa e farà sì che in molti non ne vedano l'assurdità, perché sostanzialmente ormai la verità è quello che piace a me: e se mi piace pensare che il mio beniamino le ele zioni le avrebbe vinte, se non fosse stato per qualche orrida cospirazione dei poteri forti, simpatizzo per chi pensa a scardinare una democrazia ormai corrotta e che attende solo un’occasione di rifondarsi.

Purtroppo liquidando gli elettori di Trump e Bolsonaro (o Orban) come “deplorables”, per citare Hillary Clinton, si rinfocola questa sensazione di due visioni della realtà inconciliabili. Le quali sono unite da una convinzione di fondo circa l’onnipotenza della politica: questo grande marchingegno che può tutto, a patto di essere in mano agli onesti o ai competenti (a seconda della “narrazione”). Senso del limite e senso di realtà sono i due grandi assenti del dibattito contemporaneo. Senza di essi, il futuro della democrazia resterà grigio.

Direttore dell’Istituto Bruno Leoni

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