G iorni fa il popolare giornalista Federico Rampini ha risposto ridendo all’ipotesi di un nuovo piano Marshall per l’energia europea spiegando che nel secondo dopoguerra l’Europa era letteralmente alla fame mentre ora è ricca. Aveva ragione. Si parla di circa 800mila persone morte di stenti dopo il settembre 1945 e quanto all’Italia ricordiamo solamente l’accordo del 1946 (poi chiamato col giusto nome di “deportazione economica”) sottoscritto dallo stato italiano con quello belga: circa cinquantamila italiani, forzati dalla fame a emigrare e diventare minatori nelle insicure miniere belghe, in cambio di una regolare fornitura di carbone. Oggi la Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna sono nella prima dozzina di Paesi più ricchi al mondo e non possono certo pretendere che qualcuno si tassi per assicurare i loro livelli di benessere. Eppure, chi più chi meno, le dipendenze che affliggono queste nazioni sono rilevanti tanto da determinarne politiche e divisioni.

Concentriamoci sull’Italia. La prima dipendenza, non dimentichiamolo, è finanziaria. Il nostro debito pubblico ha superato i 2.700 miliardi di euro contro un Pil che non raggiunge i 1.900 miliardi. Questo fatto ci rende estremamente vulnerabili: dovremmo aumentare il Pil per riportarci almeno alla situazione pre-crisi del 2007, ma a parte il rimbalzo post-Covid del 2021, non riusciamo a tenere il passo dell’Europa a causa delle non risolte mancanze strutturali. Le stime 2022 non sono state ancora corrette, ma se dovesse protrarsi la guerra, la nostra crescita non dovrebbe discostarsi molto dallo zero, con un’inflazione vera ormai a due cifre.

S ulla dipendenza energetica (frutto di una miopia adolescenziale e velleitaria che ha attraversato l’Italia dei no e ha ottenebrato gli strateghi, chiamiamoli così, dell’Ue) si sono già spese migliaia di pagine. Al di là delle percentuali appare comunque chiaro che nei prossimi anni dovremo pagare prezzi più alti per l’energia e subire inoltre eventuali blackout. Niente piani Marshall, ma lo scatenarsi invece di accaparramenti e speculazioni da parte degli attori più forti e previdenti a danno del vaso di coccio.

Il quadro prosegue con le dipendenze dalle materie prime in genere (significano maggior inflazione, minor export), in particolare di quelle agricole essenziali per l’allevamento e per la produzione alimentare. L’Ue ha ancora una volta fatto errori macroscopici di programmazione produttiva bloccando milioni di ettari che avrebbero potuto essere destinati alla coltivazione, rincorrendo una globalizzazione selvaggia (acquisti fuori continente) a scapito dell'autosufficienza, non curando le necessità di scorte e dimenticando infine che l’agricoltura dipende totalmente dal petrolio. Si ricordino i trattori, le serre riscaldate, l’irrigazione garantita dai motori, l’energia elettrica necessaria (il biogas italiano soddisfa solo lo 0,1% del fabbisogno): l’aumento dei prezzi dell'energia è una vera tragedia per l'agricoltura. Il mais non arriverà dall'Ucraina, ma forse dalle Americhe? Avrà un prezzo superiore e una qualità da dimostrare. Il grano duro da Stati Uniti, Canada, ecc.? Pochi problemi di approvvigionamento, sembra, ma prezzi in aumento per l’esaurirsi degli stock, senza considerare che anche l’industria pastaia brucia energia per molitura ed essicazione. Spingere le esportazioni per aumentare il Pil? Da una parte non abbiamo fertilizzanti azotati e a base di potassio, dall’altra non abbiamo predisposto le terre per le colture, dall’altra ancora abbiamo distrutto interi comparti produttivi come ad esempio quello delle barbabietole e dello zucchero. Deficit dunque di materie prime, penuria di fertilizzanti e fame di energia: una crisi perfetta dalla quale si potrà uscire solamente nel giro di anni, a valle di una dolorosa rivoluzione dalla produzione alla distribuzione. Dimentichiamoci il Settimo Cavalleggeri, siamo soli.

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