L ’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura ad Annie Ernaux mette in luce - almeno qui da noi in Italia - che i capolavori, ormai, non li riconosce più nessuno: sommersi come sono da una valanga di banalità. Altrimenti, come si spiegherebbe che la maggior parte dei romanzi della scrittrice francese siano pubblicati in Italia da “L’orma”, un editore di nicchia?

U n piccolo editore che, a fatica, trova spazio nelle vetrine di librerie sempre più intasate da una miriade di titoli furbi e commerciali, ma privi di qualunque valore letterario. Diciamolo pure: è assurdo che nel nostro Paese i libri di Annie Ernaux abbiano venduto, alla meglio, qualche decina di migliaia di copie. Perché Annie Ernaux, nei suoi romanzi autobiografici - scritti senza fronzoli e con un linguaggio talmente semplice da risultare comprensibile a un bambino - è capace di fare l’autopsia ai propri sentimenti e diventare, dunque, testimone attendibile dell’ordinario. Non dimentichiamolo: l’ordinario è ciò che ci riguarda più da vicino, il labirinto minore nel quale ci perdiamo di continuo e che vorremmo tanto imparare a percorrere agevolmente.

La vita, dunque, la vita di tutti noi può trarre beneficio dal riflettersi in quella di Annie Ernaux: nella sua straordinaria capacità di fotografare, con minuziosa esattezza, anche i più complessi, i più profondi e i più sfuggevoli sentimenti. Nessun belletto: soltanto frasi minime, come quelle di Joan Didion o di Simenon, capaci di tratteggiare a matita la complessità dell’esistenza. Come se tutti i rompicapo fossero un uovo di Colombo: da risolvere nella più semplice, ma geniale delle maniere. Annie Ernaux: che mette la propria vita sul tavolo settorio per regalarci un referto universale: quello della verità, frutto di un autobiografismo mesto che ambisce a essere specchio del mondo e non certo narciso riflesso di sé: come accade sui social network, dove le nostre autobiografie per immagini si susseguono in una disperata ricerca di approvazione, in un’ostentazione continua di quanto siamo bravi, di quanto siamo ricchi, di quanto vorremmo essere belli. Non a caso, gli accademici di Svezia hanno assegnato ad Annie Ernaux il premio Nobel “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui ha svelato le radici, gli straniamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”.

Insomma un autobiografismo universale che non viene mai imposto agli altri: ma che diventa specchio per le anime di tutti noi suggerendo che la vita è una sfida quotidiana che si può vincere soltanto impratichendosi nell’arte di imparare dai propri errori: diversi per ciascuno – è vero - ma pur sempre errori per tutti noi. Anche i titoli dei suoi libri sono esasperatamente essenziali: “Una donna”, “La donna gelata”; “L’Evento”, “Il posto”, “Gli anni”. Segnateveli questi titoli e, se potete, andate a comprarli e chiedete al vostro libraio come mai non sono pubblicati da un grande editore e perché, qui da noi, prima del conseguimento del Nobel, hanno raramente suscitato l’interesse dei lettori. Qualche giorno fa, mentre guardavo su Instagram un’infinita sfilza di immagini di Trieste mi sono imbattuto in una foto di Luigi Ghirri – uno dei più grandi fotografi di sempre. Ecco, quell’immagine, sbiadita, onesta, naufraga in un mare di scatti qualunque, si perdeva: sommersa. L’ho già detto, ma voglio ripeterlo. Il guaio dei capolavori, come le foto di Ghirri o i romanzi di Ernaux, è che non li riconosce più qua si nessuno: perché affondano nel marasma della banalità che troppo spesso li ingoia e li sommerge.

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