C i aspetta un autunno difficile. I prezzi aumentano a ritmi che non conoscevamo da quarant’anni: le persone avvertono la morsa dell’inflazione anche quando vanno a fare la spesa.I prezzi dell’energia crescono ancora di più, in conseguenza del conflitto russo-ucraino. Siccome l’energia è un input fondamentale per qualsiasi produzione, sono molte le imprese che temono di non potercela fare: che, cioè, i costi di produzione lievitino al punto da rendere loro impossibile praticare, sui beni che producono, prezzi che le persone siano disposte a pagare. La bolletta delle famiglie è diventata, in pochi mesi, una spesa ingente, del tipo che per pagarla si deve rinunciare ad altri e più graditi impieghi del proprio denaro.

In questo contesto, sono in molti a pensare: chi ce l’ha fatto fare di andare a votare? L’esito delle prossime votazioni, a guardare i sondaggi, sembra scritto. In ogni caso, andrà a sostituire al governo Draghi, rodato dall’esperienza di diciotto mesi e retto dal più celebrato funzionario di carriera del mondo occidentale, un esecutivo nuovo e con un primo ministro di prestigio internazionale assai inferiore. Ne valeva la pena?

L a risposta a questa domande è: sì. Il discorso pubblico oramai segue “narrazioni” che tendono a prescindere da alcuni dati di realtà. Facciamo un esempio. Non c’è leadership che possa prescindere dal consenso. Un capo può avere un eloquio più o meno forbito, può venir raccontato in un modo o in un altro da una stampa ostile o compiacente, può esercitarsi nell’arte dell’annuncio o seguire un riserbo strettissimo. In ogni caso, le sue decisioni non sono svincolate dal partito o dalla coalizione che vota, alle camere, i provvedimenti proposti dal suo governo, e men che meno dalla simmetria degli accordi che, prima, riesce a confezionare in seno al suo gabinetto.

In Italia dal 1993 in avanti abbiamo avuto alcuni governi (Ciampi, Dini, Monti, Draghi) sorti “al di fuori”, per così dire, della normale dialettica politica. A reggerli sono stati non-politici e il loro sostegno parlamentare non coincideva con la maggioranza scelta, col voto, dagli italiani. Ciascuna di queste esperienze fa storia a sé: il governo Ciampi nacque a causa dei risultati dei referendum, Dini per la crisi della neonata coalizione di centro-destra, Monti per la crisi del debito. Il governo Draghi aveva però un’ulteriore peculiarità: mentre i suoi predecessori erano stati chiamati al capezzale del Paese per somministrargli una cura da cavallo, per raddrizzarne cioè le periclitanti finanze pubbliche, Draghi arrivava per gestire i fondi del PNRR. Cioè non per tagliare o per aumentare le tasse, bensì per spendere, presumibilmente meglio di come avrebbero fatto altri, le risorse stanziate a nostro favore dall’Europa, poiché eravamo stati così fortemente colpiti dalla pandemia.

Neanche Draghi però, nonostante la posizione di forza nella quale si trovava rispetto ai partiti, ha potuto decidere da sé. Il suo governo è stato pesantemente condizionato dalle forze politiche dal cui voto parlamentare dipendeva. Lo scorso anno, nonostante il Paese sperimentasse il tasso di crescita più elevato dagli anni Sessanta, ha seguitato a fare deficit. I partiti chiedevano di più e di più hanno avuto. A maggior ragione ciò sarebbe avvenuto quest’anno, con le forti pressioni che l’approssimarsi delle elezioni (che sarebbero comunque state a primavera 2023) avrebbe portato con sè. Si dice che le finanziarie l’anno prima di andare a votare siano “elettorali”. Questa non avrebbe fatto eccezione, a maggior ragione visto l’incalzare della crisi energetica. Paradossalmente, il governo ha tenuto la posizione, circa non fare altro deficit per tamponare gli aumenti del gas, proprio perché non deve occuparsi della prossima legge di bilancio.

Un governo con una maggioranza così ampia finisce per essere un esecutivo la cui azione vede sommarsi i veti e le richieste clientelari dei partiti. In più, se una crisi è profonda non ci sono stanziamenti che possano impedire il diffondersi del disagio.

Non è improbabile che nei prossimi mesi disagio e paura possano dare origine a movimenti di protesta, soffiando su braci che sono ancora calde: la comprensibile paura per una guerra alle porte del l’Europa, la rabbia per la gestione di Covid-19 e green pass. Le elezioni di questa settimana hanno un esito prevedibile che, piaccia o meno, in qualche modo è compreso come tale sia dagli italiani che dai partner internazionali. Elezioni a marzo o aprile dell’anno prossimo sarebbero state molto meno prevedibili e non è scontato che il panorama dei partiti sarebbe stato quello che conosciamo oggi.

Tutto sommato queste elezioni riducono e non accrescono, nel breve termine, l’incertezza. Ovviamente ciò non garantisce che produrranno un buon governo. E tuttavia, dal momento che sembra che un vincitore sia destinato a uscirne senza ambiguità, saranno chiare le linee d’indirizzo e le responsabilità.

Direttore dell’Istituto “Bruno Leoni”

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