P enso che in molti abbiamo salutato la novità della nascita del Ministero dell’Istruzione e del Merito, nel cui sito si legge che esso “svolge funzioni di supporto alla realizzazione di esperienze formative finalizzate anche alla valorizzazione del merito, oltre che all'incremento delle opportunità di lavoro e delle capacità di orientamento degli studenti”. Sempre in molti hanno commentato positivamente questo fatto.

E cioè che finalmente avrebbe avuto voce in capitolo la meritocrazia. Tuttavia sarebbe bene precisare che al Ministero hanno parlato di merito e non di meritocrazia. La precisazione, non saprei se volutamente rimarcata nel nome del Ministero, è dovuta, in quanto il secondo termine, coniato in un romanzo distopico a fine anni ’50, era negli intenti dell’autore (Michael Young) connotato negativamente e palesemente indirizzato verso una classe “superiore” che avrebbe per merito comandato (“kratos”, indica appunto questo) il resto di una diversamente abile umanità.

Negli anni tuttavia il termine avrebbe diversificato, direbbero i linguisti, il suo alone semantico mutando le connotazioni negative con una interpretazione che si apriva ad una certa giustizia sociale, alle possibilità di combattere contro i privilegi, i familismi e così via. Ma è proprio così? Il concetto di meritocrazia è in realtà una complessa matrioska sociale, politica ed educativa, intendendo con l’ultimo termine la parte più nobile e difficile di quella serie di tecniche e di comportamenti che portano ad essere cittadini integrati in una certa società di appartenenza nel rispetto sempre più sensibile delle etnie che in quella società operano.

Purtroppo a complicare il quadro del leggendario uomo che si è fatto da solo (“self-made man”) che ha rappresentato l’ideale di meritocrazia di una nazione, l’America, e che è così caro a quelli che con le proprie forze hanno conquistato una posizione sociale, ci si è messa la scienza. Le recenti evoluzioni della genetica hanno infatti legato molte di queste capacità a caratteristiche complesse, pervasive nel genoma ed estremamente numerose note come caratteristiche poligeniche che, contrariamente alle trasmissioni mono o paucigeniche di certe malattie (pensiamo ad esempio alla trisomia 21 o alla malattia di Huntington), è la sommatoria di piccolissime modificazioni che dettano sequenze proteiche che modificano la “ricetta” dei nostri geni. Un po’ come se ognuno avesse un ingrediente segreto che sulla base di spaghetti aglio e olio, ne modificasse il gusto in una gamma tale che il sapore “base” retrocedesse a favore di una nuova fragranza (voilà la nouvelle cousine!).

Mutatis mutandis il paragone culinario ci serve per capire come il nostro cervello modifica la comunicazione (“network”) dei suoi 100 miliardi di neuroni e dei suoi 3000 miliardi di sinapsi giusto a seconda di quel patrimonio poligenico che alla fine fa sì che due gemelli possano avere un destino totalmente diverso nella società. Un altro strale sul libero arbitrio? Non necessariamente. Secondo un recente saggio della scienziata Kathryn Paige la società, una volta che la tecnica GWAS (si chiama così l’indagine poligenica) si sarà ulteriormente raffinata, potrà indirizzare risorse verso i meno fortunati partecipanti “obtorto collo” alla lotteria genetica e favorire più quel che serve, cioè l’equita’, invece di una acefala uguaglianza, cioè lo stesso a tutti.

Neurologo

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