I democratici sotto choc rivivono l'incubo del 2016 ma la resa dei conti nel partito è già scattata. Il maggior indiziato, non è una novità, resta Joe Biden: il presidente, è la tesi di molti fatta trapelare anche da una fonte anonima della campagna di Harris, ha «una grossa responsabilità» per essersi ostinato a restare in corsa per mesi, costringendo i democratici a rimuoverlo quasi di forza dopo la debacle nel duello tv contro Donald Trump.

Se si fosse fatto da parte dopo le elezioni di medio termine, come tanti assistenti lo avevano esortato a fare, le speranze dem sarebbero state più ampie. Perlomeno chiunque fosse emerso come candidato alle primarie avrebbe avuto più tempo per organizzare una campagna già complicata di suo e sarebbe entrato nelle ultime settimane prima del voto senza che così tanti americani avessero l’impressione di non saperne abbastanza, come hanno detto di Harris. 

Un errore primordiale, una responsabilità condivisa peraltro, secondo gli osservatori, anche dei vertici dell'asinello, incapaci di opporsi al presidente un anno fa, quando non gli impedirono di ricandidarsi. Harris, nei poco più di tre mesi a sua disposizione, ha cercato di fare il miracolo scontrandosi con molti papaveri del partito (compreso forse lo stesso Biden) che avrebbero preferito delle mini primarie piuttosto che la sua investitura. E le tensioni interne hanno alimentato quelle fra lo staff di Harris e la campagna del suo capo, sulla quale la vicepresidente si è per forza di cose dovuta appoggiare per la rincorsa.

Le incomprensioni sono state evidenti fin dall'inizio, con molti fedelissimi del presidente costretti a lavorare per una candidata in cui non hanno mai creduto. Da parte sua anche Harris ha commesso diversi errori: pur cercando di distanziarsi da Biden - uno dei presidenti meno amati, precipitato ad appena il 39% di consensi -, non è riuscita a prenderne davvero le distanze e ad imporsi come alternativa credibile, nonostante per lei si siano spesi soprattutto alla fine personalità del calibro di Nancy Pelosi (forse quella che ha spinto di più per il siluramento di Biden) e Barack Obama. Per l'ex presidente la debacle di Harris è un duro colpo che ridà fiato a chi lo accusa da tempo di non essere stato capace di formare una nuova generazione di leader dem, malgrado gli otto anni trascorsi alla Casa Bianca.

Occhio ora ai papabili aspiranti democratici alla Casa Bianca per il 2028, dalla governatrice del Michigan Gretchen Whitmer a quelli di California e Pennsylvania, Josh Shapiro e Gavin Newsom: una vittoria di Harris li avrebbe bloccati per otto anni, ora invece possono guardare con più speranza al futuro. Anche per loro però il problema cruciale resta quello di rifondare un partito che non sembra più in grado di parlare agli americani.

(Unioneonline/D)

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