«Quel frastuono dei palazzi che crollano mi perseguita, non credo riuscirò a togliermelo dalla testa. Poi il buio la polvere, il silenzio prima delle grida e tutti quei morti». Pasquale Brau, 53 anni, di Orotelli, la notte del 6 febbraio scorso era a Kahramanmaras, epicentro del terremoto di magnitudo 7.9 che ha devastato il sud della Turchia, al confine con la Siria. «Sono un sopravvissuto» racconta dalla sua casa di Rubiera, paesino emiliano dove il sardo lavora. «Ho aiutato a tirare fuori le persone, i morti. I turchi hanno aiutato me. Il supporto dalla Farnesina? Solo un messaggino sul telefono», racconta Brau dopo essere stato accolto al suo ritorno in Italia dal sindaco di Rubiera, Emanuele Cavallaro.

La fuga

Brau, dipendente di una ditta emiliana che si occupa dell’automazione, è stato più fortunato dell'imprenditore veneziano Angelo Zen, di cui non si ha traccia da una settimana. Lui è riuscito a scappare dalla stanza al secondo piano dell’hotel l’Alcatraz di Kahramanmaras un istante prima che la scala gli crollasse addosso. «Alle 4 del mattino ero a letto. Ho sentito la scossa mi sono vestito e sono volato fuori dalla porta. È crollata la scala del terzo piano, mi ha sfiorato. Sono uscito in strada e non si vedeva niente, solo polvere. Pioveva. Mi sono arrampicato su un cumulo di macerie, era il palazzo di sette piani che non c’era più. Sono riuscito a mandare un messaggio ai mie dicendogli che stavo bene. Poi i telefoni non hanno più funzionato. Niente luce, acqua. Lunedì e martedì sono stati terribili»,

Tra soccorritori

«Ho dato una mano tra le macerie, ma erano molte più le persone che abbiamo tirato fuori morte che quelle vive. Non conoscevano la lingua, l’inglese non lo sapeva nessuno. Parlavamo a gesti, ma ci capivamo: dovevamo provarci. Le condizioni delle vittime? Sembrava una macelleria».

La solidarietà

In quell'apocalisse ha conosciuto Durdu, ragazzo che da militare era stato 4 mesi con l’esercito italiano. «Mi ha detto: stasera vieni a casa mia. Ho mangiato da loro, sotto una tettoia di lamiera con due stufe a legna. Mi hanno accolto come uno di famiglia. Ero in condizioni pietose, mi sono potuto asciugare e scaldare. L’unico aiuto che mi ha mandato l’Ambasciata è un messaggio preso dal sito della Turkish Airline, invitava ad andare a prendere un pullman in città distanti 50 chilometri, e da lì all’aeroporto. Ma non potevi andare in aeroporto senza prenotazione. L’unica chiamata è stata di un amico di una dirigente della ditta dove lavoravamo. Mi ha detto: “tranquillo, ti chiamerà l’ambasciata di Ankara”. Una telefonata che ancora aspetto. Ero l’unico italiano rimasto in vita a Kahramanmaras, alla fine abbiamo fatto tutto noi, sono arrivato ad Adana con un imprenditore che mi ha dato un passaggio, il suo dipendente Alì che stava lavorando con me è morto. Da lì ho preso un volo facendo scalo ad Istambul. Sono scampato al terremoto in Emilia del 2012, ma in Turchia mi è passato tutto davanti: la mia infanzia e la giovinezza in Sardegna. Poi tra due settimane divento nonno. Mi dico sempre che al prossimo terremoto che arriva in Emilia “mi che torro a bidda” ma non solo per l’estate. Adesso con mia moglie Emanuela Cau (sarda di Cossoine) ci sto pensando davvero».

Fabio Ledda

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