Cecilia Sala, in carcere a Teheran dopo l’arresto a Malpensa di un iraniano ricercato in America
L’uomo è accusato di vendere armi ai terroristi, si fa strada l’ipotesi di un ricattoPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Il suo volo per tornare in Italia era già prenotato e la trasferta di lavoro in Iran si era ormai conclusa. Ma la giornalista italiana Cecilia Sala a casa non è tornata, arrestata il 19 dicembre a Teheran e da oltre una settimana in isolamento nel carcere di Evin, dove vengono tenuti i dissidenti e gli stranieri sospettati di avere rapporti con l’opposizione al regime.
Un arresto, quello della reporter, che dopo dieci giorni non ha ancora un motivo ufficiale. Ma in queste ore si fa spazio un’ipotesi, quella che l’incarcerazione di Sala sia in qualche modo collegata con il fermo 11 giorni fa a Malpensa di un iraniano, ricercato negli Usa con l'accusa di vendere armi ai terroristi. «Dalla mattina di giovedì, da quando abbiamo perso le sue tracce, ci siamo uniti tutti con un unico obiettivo: portare Cecilia a casa al più presto», ha spiegato in un’intervista al Corriere della Sera il giornalista Mario Calabresi, direttore di Chora Media. «Questo era un viaggio a cui Cecilia teneva molto. Era tanto tempo che aveva chiesto il visto», prosegue Calabresi che sottolinea come la giornalista fosse stata come sempre «scrupolosa, seria, che studia. Erano già uscite tre puntate della serie Stories , il podcast che conduce per Chora. Poi, giovedì, la nostra collega Francesca Milano mi ha chiamato e mi ha detto “non è arrivata la registrazione di Sala”». «Siamo in assenza di un'accusa formalizzata e quindi, inizialmente, la speranza era che questa cosa si potesse risolvere in fretta, motivo per cui siamo rimasti una settimana in silenzio», ha aggiunto Calabresi, che confida nell’aiuto che l’Italia sarà in grado di dare alla reporter per tornare a casa.
A supportare l’ipotesi di un nesso tra l’arresto di Sala e quello del cittadino iraniano nello scalo milanese è stato anche da Taghi Rahmani, giornalista e attivista in esilio dal 2012 nonché marito della premio Nobel Narghes Mohammadi, che non vede da allora. «Il modus operandi è quello dell'intelligence e dei Pasdaran: un arresto a sorpresa, celato per diversi giorni, il capo d'accusa che, per quanto ne sappiamo, resta ancora sconosciuto. Questa storia fa pensare a un ricatto. Se le autorità di Evin hanno cercato un contatto con l'ambasciata italiana vuol dire che stanno esplorando una via di dialogo». «Se si dovesse parlare di spionaggio sarebbe allarmante – continua Rahmani –. Lo spionaggio a favore di Paesi non nemici come l'Italia prevede una pena dai 7 ai 10 anni, ma quello a favore d'Israele evoca la pena capitale. Se, come nel caso di Alessia Piperno, non ci dovesse essere un processo invece, sarebbe più semplice. Di certo a Teheran hanno già pianificato la strategia. Per ora temo che resterà in cella, la interrogheranno cercando farle dire cose da usare contro di lei».
(Unioneonline/v.f.)